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salva invia
08 Aprile 2013
La crisi. Il cinema, la letteratura e la nostra esperienza
[Riedizione del testo: Di cosa scriviamo quando scriviamo di crisi.]
Mondo della finanza e narrazioni cinematografiche

Nella Compagnia degli uomini (2011), Edward Bond, drammaturgo inglese, mette in scena il conflitto tra un padre e un figlio nella cornice di uno spietato gioco di finanza. Il figlio, disprezzato dal padre contro cui trama e complotta, viene aggirato e schiacciato dagli intrighi degli altri personaggi e finisce per impiccarsi. Colpisce – il testo è del 1990 – il riverbero nella storia reale di Bernard Madoff, l’uomo della più clamorosa e colossale truffa americana ai danni di investitori che si erano fidati di lui, esplosa nel dicembre del 2008 con il suo arresto, inchiodato dalle accuse del figlio, Mark, che, tormentato, ha finito proprio per impiccarsi. I giochi e gli intrighi del denaro sono altamente drammaturgici, tragici e grotteschi allo stesso tempo. Non è una scoperta del teatro contemporaneo: in fin dei conti, cos’altro è Il mercante di Venezia di Shakespeare se non la riflessione tragica e grottesca su un’obbligazione, sulla riscossione di un’assicurazione su un credito, su – diremmo oggi – un Cds[1]? C’è un momento in cui le navi di Antonio sono date per disperse, forse naufragate, la sua ricchezza è sfumata, lui è in bancarotta: la libbra di carne richiesta da Shylock non è come uno swap?
Recentemente la rete televisiva americana HBO ha prodotto Too big to fail (2011), un film per i circuiti televisivi internazionali con un cast stellare: ci sono William Hurt, James Woods, Bill Pullman, Paul Giamatti, Matthew Modine e tanti altri, che interpretano Henry Paulson (allora Segretario del Tesoro), Ben Bernanke (capo, allora e oggi, della Federal Reserve), Tim Geithner (allora presidente della Fed di New York, oggi Segretario del Tesoro), Warren Buffett (che non è solo uno degli uomini più ricchi del mondo ma è generalmente considerato uno dei più sagaci investitori, tanto da essersi meritato l’appellativo di “oracolo di Omaha”) e vari membri del Congresso. Il film ricostruisce i retroscena del fallimento della Lehman Brothers dopo il salvataggio della banca Bear Sterns, di Fannie Mae e Freddie Mac[2], della Aig, una delle più grandi società di assicurazioni e servizi finanziari del mondo. Il crollo della Lehman Brothers è considerato ormai universalmente il topos della crisi finanziaria del 2007-08. Senza cedere ad alcun manierismo, nel film quel momento cruciale è ricostruito nel maggior dettaglio possibile, per quanto oggi ci è noto da audizioni, inchieste giornalistiche, memoir: il conflitto tra Tesoro americano e privati, le contraddizioni sul piano normativo, le pressioni debite e indebite, l’azzardo morale, il “bazooka” – l’espressione è di Paulson – del quantitative easing, cioè dell’immissione di liquidità senza limite, la dura divergenza con gli Inglesi e la sfiducia dei fondi sovrani (i coreani, nel caso). I dialoghi sono fulminanti: uno dei personaggi, il capo di un’importante banca privata di investimenti, precettato, come gli altri, per essere coinvolto nel tentativo di salvataggio della Lehman, viene tratteggiato da Paulson così: “Quando eravamo assieme in Goldman Sachs, ogni tanto lo si sentiva gridare nei corridoi: ‘C’è del sangue oggi nell’acqua, andiamo ad azzannare’. Uno squalo”. La società, il mondo degli uomini e delle donne, rimane sullo sfondo, evocato ma mai visibile. Eppure, la certezza che qualsiasi decisione, qualsiasi mossa accada dentro quel mondo chiuso, quell’inner circle fatto di incarichi pubblici che sono stati Ceo, Chief Executive Officer, di grandi fondi privati e viceversa, avrà effetti enormi sulla vita degli uomini e delle donne comuni è chiarissima. Davvero, una narrazione notevole.
Anche Margin call (2011), con Kevin Spacey e Paul Bettany, Jeremy Irons e Stanley Tucci tra gli altri, è un film sulla crisi finanziaria. Margin call, in finanza, è il margine di garanzia richiesto da un broker (un dealer, una banca) a un investitore per operare sul mercato dei futures[3] – cioè, dei contratti con cui è possibile fissare oggi il prezzo di una merce che verrà scambiata in una data futura – o delle opzioni. Dall’andamento del mercato il broker addebita o accredita le perdite o i guadagni giornalieri su un conto. Ma se il conto su cui opera il broker scende sotto una soglia minima, egli farà un margin call, cioè un ordine perentorio di ricostituzione del margine originale di un future, pena la chiusura del contratto. Succede, spesso, che il broker operi in perdita coi soldi dei clienti. Ed è qui che succedono i pasticci. Il film inizia con il licenziamento di uno dei capi servizio di una grossa banca di credito finanziario. Prima di andare via l’uomo lascerà nelle mani di un giovane analista una chiavetta usb contenente dei dati allarmanti. A causa di un folto pacchetto di azioni virtuali e tossiche la banca è destinata a fallire nel giro di ventiquattro ore. Da quel momento il film si svolge nel corso di una sola notte, in cui viene organizzata una riunione d’urgenza per cercare di trovare una soluzione al problema. Si scontrano le vite e le idee di persone completamente diverse tra loro. Ci sarà chi si preoccuperà solo del proprio tornaconto, chi della propria dignità professionale e chi del futuro dei colleghi destinati a perdere il lavoro. Magnificamente scritto. Una materia ostica, difficile, specialistica diventa un dramma straordinario. Mi è venuta in mente la sceneggiatura di David Mamet di Glengarry Glen Ross (1992), il film sulla prima grande crisi immobiliare americana e le trasformazioni del mercato e dei venditori. L’ultima grande performance di Jack Lemmon, Shelley ‘The Machine’ Levene. Con la sua frase memorabile contro il nuovo dirigente che vuole rendimenti più alti a qualunque costo, pronto a far firmare contratti di mutui anche ai morti, che aizza i venditori l’uno contro l’altro facendo le pagelle e mettendo in palio una Cadillac: “In questo mondo non c’è più posto per gli uomini. Questo non è un mondo per gente come noi. È un mondo di passacarte, di burocrati, di mezzemaniche. Non fa per noi. Non c’è più gusto. Siamo alla fine. Ecco cosa siamo, noi siamo una razza in estinzione!”. Be’, dieci anni dopo i mutui erano ormai solo un derivato finanziario e i subprime[4] non li facevano firmare ai morti, ma poco ci mancava.
Il capostipite di questi film recenti sulla finanza è Wall Street (1987) di Oliver Stone, al cui centro è la figura di Gordon Gekko, spietato giocatore della finanza. Peraltro, dopo il crollo e il carcere, Gekko è tornato in Wall Street. Il denaro non dorme mai (2010), in cui Michael Douglas fa prima a pezzi il giovane broker Jacob che si è intanto fidanzato con sua figlia, che lo odia imputandogli il suicidio del fratello più giovane e fragile, poi riconquista il suo tesoro nascosto e, mentre il mondo finanziario crolla con la crisi dei subprime, riprende a guadagnare alla grande proprio perché aveva intuito quello che stava per accadere. Alla fine, però, un certo sentimento prevale. L’avidità – la greed, osannata per anni dalla politica americana prima con Reagan e ora con più prudenza dal partito repubblicano e con misticismo dal Tea party – si arrende davanti a un’ecografia, quella del bimbo che sta per nascere ai due giovani. Quanto era cinico e convincente il primo film, tanto è debole e speranzoso il secondo.
Il mondo anglosassone ha da tempo messo in scena il mondo finanziario, ne ha fatto drammaturgia; negli Stati Uniti – come potrebbe essere altrimenti visto che buona parte dell’immaginario occidentale si costruisce là? – sono stati lesti nel trasformare la crisi dei subprime e quella finanziaria in sceneggiature. Se per un qualsiasi spettatore è difficile riconoscersi nei personaggi, a meno di non essere un broker di Wall Street o il gestore di un hedge fund[5], queste sceneggiature hanno svolto una funzione didascalica, utile e nient’affatto catartica, molto più che uno qualsiasi dei buoni docufilm di Michael Moore o il pur bello The Corporation (2003) – entrambi canadesi, come la rivista Adbusters che ha inventato lo slogan “Occupy Wall Street”. Perché i crolli della Borsa, i fallimenti dei fondi pensione, il gioco degli swap e di una infinita varietà di derivati fino a diventare incomprensibili, fino a perderne il conto e la ragione, vengono ricondotti a quello che effettivamente anche sono: azioni umane, volontà soggettive, passioni, desideri, lotte di potere, frustrazioni. La crisi, cioè, si capisce narrativamente come non succede altrimenti.
Il circuito finanziario era già entrato nel cinema anche con un personaggio di La 25[a] ora (2002) di Spike Lee: il broker Frank Slattery, amico del pusher Monty Brogan (interpretato da Edward Norton) che ha ventiquattr’ore di tempo per salutare il suo mondo prima di andare in prigione, che ha giocato allo scoperto milioni di dollari di un fondo pensione e, mentre il suo capo gli intima di richiamare gli ordini e coprirsi, continua imperterrito e ormai fuori da ogni regola la sua scommessa che si fonda su un solo dato in arrivo su un monitor, il numero trimestrale dei disoccupati. È agghiacciante: il mondo del lavoro, uomini e donne, ridotto a un dato sul monitor per inventare denaro. Il film è dei primi anni Duemila, ma il romanzo di David Benioff (2001), da cui il film è tratto, era stato scritto prima dell’undici settembre, mentre Lee decide di proiettare sul racconto il fascio della luce della tragedia proiettato verso il cielo. È una delle scene più angoscianti: gli amici, raccolti in un appartamento che affaccia su Ground Zero, guardano l’enorme voragine in cui le ruspe lavorano senza sosta sotto i riflettori. Questa era l’America di quei giorni: una voragine, uno smarrimento. E un vitalismo senza regole, senza prospettive, senza senso, avvitato su se stesso, fermo sul posto. Una simile voragine, un simile smarrimento si riaprì con la crisi del 2007-08.


Esperienza e narrazione

Negli Stati Uniti questa crisi finanziaria è stata un’esperienza di vita personale – la crisi dei subprime ha significato la perdita della casa per centinaia di migliaia di mutuatari, la crisi della Lehman Brothers ha comportato la perdita del lavoro per migliaia di addetti che uscivano con gli scatoloni degli effetti personali dai grattacieli luccicanti. In Europa, in Italia essa è rimasta, invece, un episodio lontano, impersonale. Non che in Europa non sia arrivata l’onda di quella crisi, ma è rimasta confinata in un ambito inattingibile, quando non incomprensibile, alla vita degli Europei. Inenarrabile. Le banche, i governi, i tecnici se ne interessavano, vi erano coinvolti, ne erano preoccupati. Loro sapevano, non proprio tutto, ma molto di più degli altri, della gente comune. La maggior parte degli Europei, degli Italiani ne era informata, ma non ne faceva immediata esperienza. E, senza esperienza, non c’è narrazione.
Si conferma e si smentisce, allo stesso tempo, uno dei concetti-cardine espressi da Walter Benjamin ne Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, in cui, per affermare che la narrazione volge ormai al tramonto dato che le “quotazioni dell’esperienza sono crollate”, scrive: “Mai esperienze furono più radicalmente smentite di quelle strategiche dalla guerra di posizione, di quelle economiche dall’inflazione” (Benjamin 1936, trad. it. 2011, p. 4). Come sempre, un lampo di luce attraversa le frasi di Benjamin: “le quotazioni dell’esperienza” è un’espressione straordinaria, sedimentata di significato, un accostamento linguistico – economia e narrazione – inusitato, comprensibile ricordando quel drammatico rivolgimento che fu l’inflazione fuori da ogni controllo che portò al crollo della repubblica di Weimar e poi all’avvento del nazionalsocialismo. Ogni esperienza precedente, ogni storia dell’inflazione era assolutamente inconsistente e inutile alla luce di quella catastrofe che conduceva all’afasia o all’urlo. La crisi economica tedesca degli anni Venti fu un’esperienza sociale devastante: a dicembre del 1923 un chilo di pane costava 399 miliardi di marchi, e gli operai venivano pagati giornalmente e correvano al mercato a comprare gli alimenti perché il giorno dopo la loro moneta non sarebbe valsa quasi nulla. In Germania, cioè, la crisi è dentro l’immaginario sociale, l’inflazione e il debito pubblico sono come una Geenna, il luogo della distruzione dei malvagi, e alla luce di questo dato sono comprensibili certi timori della leadership tedesca.
Ne Il narratore, che è un’opera pubblicata quando il nazismo si era ormai affermato, Benjamin ribadisce e affina l’idea di narrazione che aveva già presentato nell’introduzione al capolavoro di Alfred Döblin, Berlin Alexanderplatz (1929), in cui la devastazione sociale diventa sfigurazione dei tratti umani e psicologici dei personaggi, incapaci ormai di capire e gestire il proprio destino[6], gettati nel mondo, sbattuti e aggrappati a uno spazio che cambia continuamente ed è sempre lo stesso, la piazza. Alexanderplatz è il luogo in cui si stanno realizzando trasformazioni sconvolgenti, scavatrici e battipali lavorano senza tregua, la terra trema sotto i loro colpi, è il luogo in cui, più che altrove, le viscere della metropoli, i cortili interni hanno mostrato le loro voragini. È il Ground Zero della Berlino anni Venti. In un vitalismo avvitato su se stesso, fermo sul posto. Nel romanzo di Döblin non è difficile leggere in filigrana il debito teorico – non so se reale, consapevole o casuale: ci sono momenti in cui i concetti volano nell’aria come farfalle monarca in migrazione, avanti e indietro, e si lasciano ammirare – verso Georg Simmel, primo vero filosofo del denaro come unico collante sociale, e della metropoli. Proprio quel romanzo, sperimentale e innovativo nella forma e nel linguaggio, così zeppo di esperienza umana, marginale e assoluta allo stesso tempo, mostra la crisi della narrazione, che è per Benjamin l’esperienza comunitaria e, perciò, politica dell’uomo.
Gli Americani hanno reso narrativa l’esperienza della crisi finanziaria attraverso il cinema. L’hanno resa raccontabile. Va detto, però, che già la letteratura se ne era interessata, ne aveva scritto le avvisaglie. Cosmopolis (2003) di Don DeLillo è un ambizioso romanzo che racconta ventiquattr’ore[7] di Eric Parker, un ventottenne multimiliardario gestore di investimenti, che attraversa la città e i suoi ingorghi, qui per una visita presidenziale, lì per il funerale di un rapper, là per un riot, su una limousine superaccessoriata ma non per questo meno fragile e in balia degli eventi. Nel corso di queste ventiquattr’ore Parker perderà una somma incredibile di denaro scommettendo contro il rialzo dello yen, e firmando così la sua rovina che è finanziaria e umana.
Ma il cinema e, ancor di più, le fiction televisive sono molto più popolari della buona letteratura. Così, gli Americani hanno potuto capire le scelte – giuste o sbagliate, giuste e sbagliate – degli uomini che stanno dietro ai meccanismi del potere distante, che stanno dentro a quei meccanismi lontani. Ciò che è distante è inenarrabile, non riusciamo ad attingerlo. La narrazione ha permesso loro di comunicarsi l’esperienza. È difficile sottrarsi alla suggestione che proprio questa narratività, cioè la capacità di raccontare l’esperienza, di condividerla, si sia in realtà riflessa nel movimento di “Occupy Wall Street”[8]. Il racconto della crisi finanziaria era già comunità linguistica e si è trattato di dare la forma di una comunità politica. “Occupy Wall Street” è contemporaneamente un movimento di narratori e di lettori di quello straordinario dramma che è la crisi finanziaria[9]. Benjamin ne sarebbe rimasto stupito.
In un articolo su “Die Zeit” (2011, Nr. 46), La fine del capitalismo, Wolfgang Uchatius scrive: “Possiamo immaginare una rappresentazione teatrale all’aperto. C’è un’opera che va in scena dal settembre del 2008, quando la banca d’investimento statunitense Lehman Brothers è fallita. S’intitola Crisi finanziaria” (trad. it. 2011, p.46). Ecco, Uchatius parla di una rappresentazione teatrale e di un’opera come metafora. Negli Stati Uniti questo accade realmente.


Dall’America all’Europa: il silenzio della narrazione

Noi Europei, noi Italiani non abbiamo avuto una narrazione della crisi finanziaria. Forse sta qui uno dei motivi per cui un movimento come quello di “Occupy Wall Street” rimane inconcepibile. Noi Europei, noi Italiani non abbiamo avuto esperienza della crisi finanziaria, e, come abbiamo già detto, senza esperienza non c’è narrazione. La crisi finanziaria è rimasta confinata tra i tecnici, nell’inner circle, gente che va e viene tra incarichi pubblici e consigli di amministrazione privati di banche o fondi di investimento. L’introduzione di termini tecnici, a volte paradossale, a volte grottesca, come quella dello spread[10], nel linguaggio giornalistico prima e nella chiacchiera pubblica dopo, non ha modificato questa realtà, anzi l’ha resa ancora più impermeabile, più distante. Lo spread non comunica nulla, se non un dato che sembra oggettivo e bizzarro come il tempo: accanto alle informazioni meteo, le televisioni e i quotidiani vanno introducendo le informazioni spread. Lo spread non appartiene alla nostra esperienza umana quotidiana, a meno di non essere uno che tutti i giorni interviene sul mercato secondario dei titoli. La continua reiterazione dei movimenti dello spread ha finito per uccidere qualsiasi narrazione possibile. Forse è proprio questo il punto: l’informazione ossessiva espropria la narrazione[11]. Siamo inzeppati di analisi, grafici, ragionamenti, statistiche e sequenze, ma piuttosto che facilitarci nel comunicare qualcosa, una qualsiasi esperienza, questa mole di dati diventa disumana, un paesaggio di macerie, una voragine. Non ci sono eroi nello spread, non ci sono codardi, non ci sono passioni, amori, tradimenti. Lo spread non potrà mai essere un personaggio. E senza personaggi non ci sono storie.
Penso alla prosa più recente di Eugenio Scalfari (2012):

Il Tesoro tuttavia, come la stessa Bce ha suggerito e dal canto nostro abbiamo raccomandato, dovrebbe aumentare il numero dei titoli in scadenza a breve durata, che il mercato vede con favore. Dovrebbe altresì azzerare il fabbisogno con un’operazione che rientra agevolmente nelle sue attuali capacità.

Per chi scrive Scalfari? Chi è il lettore di Scalfari? Monti, Draghi, Vittorio Grilli? L’inner circle? Davvero esiste una narrazione comune, sociale – si può essere insieme narratori e lettori – che passa attraverso la differenza che andrebbe sollecitata tra le emissioni e i rendimenti dei titoli a breve, media e lunga scadenza?
Eppure, gli uomini comuni dell’Europa, dell’Italia stanno facendo esperienza della crisi. Ma è proprio così?
In realtà, quello di cui noi stiamo facendo esperienza non è la crisi finanziaria, bensì le misure varate dai governi europei contro la crisi. In Romania, a Gennaio, a Bucarest, a Cluj, a Iasi, a Targu-Mures, ci sono state manifestazioni di piazza e scontri durissimi con la polizia. La Romania, per rientrare nei livelli di deficit concordati con il Fmi e l’Unione Europea, ha dovuto fare i tagli più duri dell’intera Unione europea. Il 25 per cento in meno negli stipendi dei dipendenti pubblici, e tagli consistenti alle pensioni: oggi un pensionato romeno con trentasette anni di lavoro prende in media 160 euro al mese; pur con tutte le debite proporzioni con il costo della vita, sembrano proprio pochini. In questo senso, anche la Grecia è emblematica. La protesta sociale – quella che gli analisti dei rating definiscono “reform fatigue” e a cui probabilmente assegnano un punteggio e di cui disegnano un grafico – si è intensificata ed è lievitata a partire dalle misure imposte dall’Europa al premier Papandreou prima e poi al “tecnico” già vicepresidente della Banca centrale europea Papademos per uscire dalla crisi: come in Romania, tagli agli stipendi dei dipendenti pubblici, e tagli consistenti alle pensioni.
Petros Markaris, lo scrittore greco inventore del commissario Charitos, sta scrivendo una trilogia sugli effetti di queste misure. Markaris ha deciso di raccontare le crescenti difficoltà sociali e individuali di questa fase greca attraverso la forma del libro giallo, che, a ben pensarci, sembra essere la forma attuale del romanzo europeo. Ma trovo anche interessante che Yanis Varoufakis, del Dipartimento di Economia dell’Università di Atene, per spiegare la globalizzazione abbia scelto una figura mitica della cultura ellenica e fondativa dell’occidente – lo si capisce senza bisogno di scomodare Karl Jung o James Hillman –, The Global Minotaur (2011). Come anche che abbia fatto riferimento a Esopo e alla favola delle formiche e delle cicale per parlare di debiti pubblici e avanzare una Modest proposal for overcoming the euro crisis (2012, versione 3.0). Il titolo Modest proposal è un evidente richiamo a Jonathan Swift e al suo libro del 1729 (A Modest Proposal) in cui proponeva, per combattere la sovrappopolazione e la disoccupazione dei cattolici irlandesi, di ingrassare i loro bambini denutriti e darli da mangiare ai ricchi proprietari terrieri anglo-irlandesi. Non so quale possa essere la strada della narrazione della crisi, tra miti e libri gialli, ricorrendo alle proprie radici linguistiche o praticando una forma europea. Certo, la metafora delle sette fanciulle e dei sette fanciulli dati in pasto al mostro è facilmente identificabile con i sacrifici economici imposti: resta da capire chi sarà Teseo e quale il filo rosso di Arianna che lo guidi fuori dal labirinto.
Qui in Europa, quindi, la situazione è rovesciata rispetto agli Stati Uniti: noi non stiamo facendo esperienza della crisi, ma delle misure contro la crisi. Noi stiamo facendo esperienza della controcrisi. Sembra quasi la stessa cosa, ma in questo lieve slittamento c’è un capovolgimento. A partire da questa considerazione: a parte la Germania, i Paesi europei, in particolare quelli dell’area mediterranea, vivevano già da tempo, da circa un decennio – che è più o meno il tempo trascorso dall’introduzione dell’euro, anche se la questione non è addebitabile solo alla moneta unica – un periodo di stagnazione, di mancanza di crescita e sviluppo. Quello che viviamo adesso – le misure contro la crisi – non ha niente a che vedere con lo scoppio di una bolla speculativa immobiliare o di titoli tossici o con l’impazzimento dei derivati finanziari. Quello che viviamo adesso – le misure contro la crisi – non fa che stringere ulteriormente la produzione, verso la recessione. È la nostra esperienza quotidiana: se spendiamo di meno, se stiamo più attenti ai consumi, se aumentano una serie di pagamenti assolutamente improrogabili[12], ci rendiamo conto che si produrranno meno oggetti, circolerà meno denaro, ci sarà una minore distribuzione nel commercio, e tutto questo si tradurrà poi in minore occupazione.
Per alcuni versi – avanzo qui solo una suggestione, ma la trovo curiosa proprio mentre “The Economist” (2012) titola in copertina The Rise of State Capitalism – sembra che l’Unione Europea vada applicando una sorta di ‘ricetta Eltsin’, cioè il salvataggio a opera del Fondo monetario di un’economia, quella russa, ormai fuori controllo dopo Gorbaciov e il tentato golpe, e gravata dal peso di una spesa pubblica abnorme, tagliando drasticamente le voci primarie: stipendi pubblici, pensioni, sanità, scuola, in cambio dell’introduzione di una maggiore ‘libertà’ nel mercato del lavoro e della privatizzazione selvaggia dei beni pubblici (lì, soprattutto l’energia e il gas). Come sta accadendo ora in Grecia e in Romania. Per una qualche ragione, nell’inner circle dei tecnici, degli incarichi pubblici europei che sono stati Ceo di grandi istituti di credito privati e viceversa, si è sedimentata una valutazione sul carattere ‘socialista’ di quelle economie europee in cui la mano pubblica aveva un peso determinante. Il che vale di sicuro per la Grecia, per il Portogallo, per la Spagna, per l’Italia. Queste economie fondamentalmente autarchiche sarebbero condannate al fallimento dentro la globalizzazione: di fatto, sono già stentate in quella sorta di Comecon (l’allora mercato dell’Urss e dei paesi satelliti) che è stato il mercato europeo sinora, con una nazione ‘acchiappatutto’ (qui la Germania, lì la Russia) e le altre a supporto. La storia delle quote latte tra i Paesi europei, per dirne solo una – con eccedenze di produzione distrutte e rimborsate per mantenere un livello dei prezzi –, non ha nulla da invidiare alle pazzie socialiste sul grano dei kolkoz – con livelli falsati di produzione e rendimenti e forme di carestia nelle campagne per garantire l’arrivo della farina nelle città. Non è necessario aver studiato i fondamentali della scuola austriaca per convincersi che il controllo dirigista e socialista dei prezzi è impossibile e deleterio. L’unica strada per ‘modernizzare’ queste economie parasocialiste, per metterle al passo con le sfide che ci aspettano (la Cina e il Bric, per dire) sarebbe cioè questa sorta di ‘ricetta Eltsin’: la liberalizzazione spinta, magari un po’ più distribuita e monitorata, e la cosiddetta ‘equità’.
Tuttavia, se alcune premesse sono condivisibili – fra cui lo stallo dell’economia, la sconfitta tecnologica, l’assenza di ricerca e innovazione, il declino produttivo nascosto dal debito pubblico impazzito e da un mercato dove piccoli monopoli vengono difesi strenuamente – e se è ragionevole indicare nella rendita, per principio parassitaria, statica, retrograda, la palla al piede di queste nostre economie, alcuni avvertimenti sono però necessari.
In primo luogo, la ‘ricetta Eltsin’ è stata disastrosa e ha finito per irrigidire l’economia russa e, soprattutto, la sua democrazia, che Putin chiama eufemisticamente “democrazia guidata”. Varrebbe forse la pena di riconsiderarne la bontà: la pensione media a Mosca è salita del 8,89 per cento rispetto ai primi nove mesi del 2011 e ha raggiunto quota 8.900 rubli al mese, cioè circa 210 euro. Fatte le debite proporzioni con il costo della vita e anche se sono cinquanta euro più dei Romeni, sembrano proprio pochini. In ogni caso, la Russia ha sempre potuto contare su una riserva praticamente illimitata di materie prime, cioè su un’assicurazione illimitata per qualunque prestito e su un potere di ricatto straordinario, cosa che di certo non può dirsi per le economie ‘minute’ del Mediterraneo statalista e parasocialista.
In secondo luogo, se la rendita ha caratteri ‘nazionali’ e non potrebbe essere altrimenti, qui da noi, in Italia, la rendita si concentra soprattutto intorno al capitale privato, al capitale immobiliare, al capitale bancario e assicurativo. La rendita si concentra, cioè, intorno alla produzione e al credito. Allora, se c’è un’anomalia italiana, è che il settore che gode maggiormente della protezione statale e pubblica è quello del capitalismo. Degli oligopoli pubblici e privati. D’altronde, proprio questa anomalia è stata per decenni motivo di un certo ‘vanto’ nell’inner circle. La mitologia dei Beneduce, Mattioli, Cuccia, e poi tutto a scendere. Nei fatti, però, marchi storici italiani e industrie storiche italiane sono già passati nelle mani del capitalismo globale. La produzione nazionale è già da tempo in dismissione.
È questa affabulazione che sta dietro ai governi tecnici, in Italia come in Grecia: per principio narrativo, per convenzione narrativa, essi incarnano la soluzione del problema, sono la riforma. Ma mentre negli Stati Uniti, dove la crisi finanziaria è esplosa, tutte le misure hanno il segno di tentativi per alleviare lo smarrimento derivante dalla disoccupazione, dal credit crunch, cioè dalla contrazione dell’offerta di denaro in prestito soprattutto alle imprese da parte delle banche, dal calo degli ordini, dallo stallo industriale, in Europa le misure, le riforme hanno preso il segno del rigore, dell’austerità dato che la crisi, impersonalmente, ha preso il segno del debito pubblico. Non quello di un inner circle che ha profittato – contro cui gridare: “We are the 99%” – ma quello di una colpa universale. Un peccato originale trasmesso a tutta l’umanità europea. O, almeno, a quella cicaleccia, mediterranea.
Questo passaggio dalla crisi finanziaria alla crisi dei debiti pubblici non ha avuto alcuna narrazione. È rimasto ‘patrimonio’ della nomenclatura, su cui l’informazione, giornalistica perlopiù, apre lampi che rendono ancora più oscuro il buio momentaneamente squarciato. Perché non può non colpire che, a giugno, negli stessi giorni in cui esortava in conferenza-stampa a comprare Bot, Monti abbia detto di essere stato già informato in privato del downgrade deciso da Standard e Poor’s per l’Italia.
In un certo senso, stiamo facendo esperienza del pensiero già citato di Benjamin: “Mai esperienze furono più radicalmente smentite di quelle strategiche dalla guerra di posizione, di quelle economiche dall’inflazione”, però nella seguente riformulazione: ‘Mai esperienze furono più radicalmente smentite di quelle economiche contro la crisi’. Rispetto alle attuali misure contro la crisi, alla controcrisi, non c’è esperienza storica che valga, si sia più o meno innamorati convinti di Keynes o, all’opposto, di von Mises.
Di fatto, i governi europei adottano misure anticrisi che non hanno alcuna possibilità di narrazione. Il loro arco temporale è di ventiquattr’ore o poco più, giusto il tempo tra l’apertura delle borse asiatiche e la chiusura di quelle europee, una sorta di ‘odissey joyciana’, ma invece di costruire un’epica – il New Deal rooseveltiano, per dire, è stato un’epica – si limitano a una reiterazione coattiva degli stessi meccanismi discorsivi, degli stessi dialoghi: sale lo spread col Bund[13], interviene la Bce sul mercato secondario, scende lo spread, la Bce rallenta, fino alle ventiquattr’ore successive. La trama prevede solo questo acme narrativo, questo happy end: la Bce deve diventare prestatore di ultima istanza, ci vogliono gli eurobond[14]. L’unico arco temporale su cui i governi europei intervengono è quello delle misure del rigore, che si dilata in maniera assolutamente inverosimile, con scadenze al 2027, al 2043. Pensiamo, per esempio, alle pensioni: nessuna narrazione può trattenere un qualsiasi passaggio di esperienza su un futuro così discrezionale; nessun personaggio e nessuna azione possono essere narrativamente credibili. Bisogna avere davvero fede nella potenza del capitalismo o nella sussistenza eterna del denaro per accettare lo scambio – era una delle proposte sul tavolo delle misure per “salvare” la Grecia – dei bond precedenti con un concambio di nuove emissioni al valore del 50-60 per cento (nella forbice stava tutta la trattativa) le cui cedole cominceranno a scadere nel 2043. Avranno ragione loro, nel loro millenarismo, come la Chiesa cattolica che crede nel purgatorio e nelle indulgenze?
Il paradosso potrebbe rintracciarsi nella ‘crisi narrativa’ che sembra riguardare il capitalismo. Sul “Financial Times”, su “Policy Affairs”, sul “Wall Street Journal”, su “Die Zeit”, sul “Guardian”, su giornali popolari e riviste pensose fa ormai stabile presenza un dibattito sulla “fine del capitalismo” col punto interrogativo. La questione mi appare complessa. Se per un verso è vero che l’opzione sul futuro sembra essere drammaticamente in crisi, come la capacità di programmazione che però era più del socialismo con i suoi piani quinquennali, ma anche di un’idea indefettibile del progresso, la forza del capitalismo sta nel suo ‘spirito animale’ di distruzione, e, quindi, nella possibilità della ricostruzione tramite la guerra o la crisi, ovvero nel suo ciclo. E la distruzione è sicuramente una situazione altamente narrativa. Fa parte della nostra condizione umana rimpiangere ciò che perdiamo, cui finiamo per affidare un valore nel tempo, molto più di ciò che non abbiamo ancora. La perdita del passato è una situazione fortemente drammatica più dell’assenza di futuro e dell’incertezza del domani. Parimenti, la conoscenza del futuro prossimo – non solamente in un libro giallo – toglie ogni aura narrativa. È nel nichilismo del capitale la sua forza di narrazione, come stava nell’irenico domani la debolezza delle magnifiche sorti e progressive. L’incertezza di stare al mondo, che è la nostra possibilità di avere un arbitrio e un destino, è la molla del nostro desiderio: cosa potremmo mai desiderare se già conosciamo le possibilità del nostro domani? Aver affidato tutto alla tecnica sembrava aver fatto smarrire capacità drammatica al capitalismo: la tecnica è per principio priva di errori e scarti, di principi di soggettività. Il crollo della tecnologia – momentaneo, certo – anche di quella militare, o la sua riconversione riaprono, però, la sostanza narrativa. Da questo punto di vista, il capitalismo sembra essere proprio in gran forma. E lo è non solo dove sembrava aver esaurito la sua spinta propulsiva ma anche dove è stato da poco scoperto. Come scrive ancora Wolfgang Uchatius in “Die Zeit” (2011): “La macchina capitalistica non ha prodotto solo un’opulenza apparente e a tratti oscena, ma ha anche salvato dalla povertà centinaia di milioni di cinesi, indiani, sudcoreani, vietnamiti, e brasiliani” (trad. it. 2011, p. 47). Per loro è proprio una grande epopea, qualcosa che tra poco i nonni racconteranno ai nipoti.


Domande per (non) concludere

Le misure contro la crisi sono spiegate attraverso la forma del saggio accademico, della lectio, con i numeri, i dati, le statistiche e le sequenze: non ci sono passioni, personaggi, frustrazioni, ambizioni. Sono questo grigiore, questa neutralità, questa tristezza che dovrebbero dare credibilità e verosimiglianza: se c’è un debito, per prima cosa vanno ridotte le spese. Non bisogna essere padroni della partita doppia per saperlo, per capirlo. La riforma del debito è così vestita di ragionevolezza, d’incontrovertibilità, dell’impossibilità della falsificazione, della mancanza di profondità e spessore, dell’assenza di imprevedibilità, di scarto, mentre qualsiasi esperienza facciamo delle misure contro la crisi – la disoccupazione, la recessione, la contrazione del credito, la precarietà – assume il carattere della passione, del sentimento, della occasionalità, dell’impeto. Dell’umore. Rimane, cioè, singolare, marginale.
La catastrofe finanziaria americana, la voragine e lo smarrimento sono state le condizioni da cui l’immaginario negli Stati Uniti ha sviluppato una narrazione possibile – l’industria che ritorna forte, l’insourcing, l’orgoglio di produrre americano, lo stigma dell’avidità sfrenata – e può anche avanzarsi la suggestione che abbia agito muovendosi sulle linee guida del dopo undici settembre. Mentre la catastrofe europea è un’evocazione che oscura e mette a tacere l’esperienza che quotidianamente facciamo. È una fiaba, rassicurante e terribile come tutte le fiabe. Restano come salvezza le riforme, le misure. Pollicino misurato, sapiente, ragionevole nel suo disseminare sassolini contro l’orco della crisi.
La domanda che adesso dovremmo porci è: davvero noi Europei, noi Italiani non riusciamo a costruire narrazione, quindi a scambiare la nostra esperienza della voragine causata dalle misure contro la crisi? Davvero gli Stati Uniti stanno ripetendo il miracolo letterario che li attraversò prima, durante e dopo la crisi del ’29 – per tutti, cito Manhattan Transfer (1925) di Dos Passos, o Sherwood Anderson (1920) – nella crisi finanziaria attuale con linguaggi espressivi diversi e, quindi, una circolazione diversa, più ampia e capillare? Forse pensava a quello straordinario periodo Vargas Llosa quando nel 2009 disse: “La crisi economica avrà almeno un effetto positivo, quello sulla letteratura” (cit. in Beretta, A., p. 13). E davvero noi Europei stiamo scambiando lucciole per lanterne – le misure contro la crisi come fossero la salvezza, la recessione come fosse la crescita, l’austerità come fosse lo sviluppo?
“La lettura”, l’inserto domenicale del “Corriere della Sera”, sembra farne un’imputazione alla scrittura italiana. Gli scrittori italiani si sono impantanati nel raccontare il precariato – scrive Alessandro Beretta (2012) – ormai cucinato in tutte le salse, e non colgono “l’occasione d’oro della crisi”. E suggerisce di cercare “altri soggetti”, per esempio i mutuatari di case, come fa Paul Auster utilizzando la crisi dei subprime come fondale in Sunset Park (2010).
Questo è, appunto, scambiare lucciole per lanterne. La narrazione italiana ha già parlato della crisi. Non fa altro da dieci anni. La crisi del lavoro, il precariato, nelle storie minime, nei reportage, nei testi per il teatro o nei monologhi, nei racconti d’invenzione: la narrazione italiana ha già raccontato questo senso della catastrofe per una generazione, della voragine, dello smarrimento. Che abbia scelto la vena del comico o del grottesco o della sperimentazione linguistica non fa differenza. Perché gli scrittori italiani dovrebbero scrivere della crisi dei subprime o dei gestori degli hedge fund? Cioè, di cose americane? Le misure contro la crisi, la controcrisi, che è quello che noi viviamo, non modifica la materia narrativa finora elaborata. La amplifica e la approfondisce. Potrà tutt’al più precarizzare ulteriormente le nostre vite. Lo sta già facendo. O deprimere ancora di più quel po’ di produzione che facciamo: forse il libro di Edoardo Nesi, Storia della mia gente (2010) vincitore del Premio Strega, ha fatto solo da apripista. La dismissione, il bel libro di Rea che racconta la fine di un luogo industriale simbolico, l’acciaieria Ilva di Bagnoli, è del 2002. Empire Falls, il romanzo di Richard Russo (2001) in cui si descrive la caduta di una famiglia una volta potente, proprietaria delle industrie tessili di una zona del Maine, l’arrivo delle multinazionali, il degrado delle Empire Falls, un luogo industriale simbolico, è Pulitzer 2002. Perché Nesi o Rea avrebbero dovuto scrivere invece di subprime come Paul Auster?
Per una qualche ragione che io non so spiegare, sembra che mentre negli Stati Uniti in crisi si sviluppi una narrazione democratica, nell’Europa in crisi si pongano le premesse di una narrazione totalitaria. L’impersonalità delle cause della crisi dei titoli pubblici – la speculazione, i mercati, enti lontani e misteriosi – e la tecnicità delle misure contro la stessa crisi – il rigore, l’austerità, la retorica dei sacrifici imposti dalle necessità – espropriano ogni riflessione, ogni espressione, ogni conflitto del demos. Impongono la sospensione del demos. E dove c’è sospensione del demos, c’è forma di totalitarismo. Uso comunque il concetto di narrazione totalitaria con cautela: il totalitarismo è l’assenza della narrazione. Anzi, contro il totalitarismo – basti pensare all’Arcipelago Gulag (1974) o a Una giornata di Ivan Denisovič (1999) di Aleksandr Solženicyn, a Primo Levi o a Bruno Schulz – può resistere solo la speranza della narrazione. Il totalitarismo è proprio la morte della narrazione, l’incapacità, l’impossibilità di comunicarsi l’esperienza.
Viviamo già in questa impossibilità?


Bibliografia
Anderson, S. (1920): Poor White, B. W. Heubsch, New York. Traduzione italiana: (1945) Un povero bianco, Einaudi, Torino
Auster, P. (2010): Sunset Park, Henry Holt,
New York. Traduzione italiana (2010): Sunset Park, Einaudi, Torino
Benioff, D. (2001): The 25th Hour, Carroll & Graf Publishers, New York. Traduzione italiana: (2001) La venticinquesima ora, Neri Pozza, Vicenza
Benjamin, W. (1936): Der Erzähler. Betrachtungen zum Werk Nikolai Lesskows. In: “Orient und Occident”, Oktober 1936. Traduzione italiana: (2011) Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, Einaudi, Torino
Beretta, A. (2012): Il romanzo della crisi: l’occasione d’oro 
della narrativa italiana. In “La Lettura”, supplemento domenicale del “Corriere della Sera”, 15 gennaio 2012
Bond, E. (2011): La compagnia degli uomini, Libri Scheiwiller, Milano
DeLillo, D. (2003): Cosmopolis, Einaudi, Torino
Dos Passos, J. (1925): Manhattan Transfer, Harper and Brothers, New York. Traduzione italiana: (1953), Manhattan Transfer, Mondadori, Milano
Döblin, A. (1929): Berlin Alexanderplatz, S. Fischer Verlag, Berlin. Traduzione italiana: (1963) Berlin Alexanderplatz: storia di Franz Biberkopf, Rizzoli, Milano
I quaderni di Affari&Finanza (2011): Capire la crisi. Le 100 voci da conoscere per affrontare il futuro. Supplemento a “la Repubblica”, 19 dicembre 2011
Nesi, E. (2010): Storia della mia gente, Bompiani, Milano
Rea, E. (2002): La dismissione, Rizzoli, Milano
Russo Richard (2001): Empire Falls, Alfred A. Knopf, New York. Traduzione italiana (2003): Il declino dell'impero Whiting, Sonzogno, Venezia
Scalfari, E. (2012): Quelle verità scomode
e le comode bugie, “la Repubblica”, 15 gennaio 2012
Simmel, G. (1900): Philosophie des Geldes, Duncker & Humblot, Leipzig. Traduzione italiana: (2003) Filosofia del denaro, UTET, Torino
Solženicyn, A. (1974): Arcipelago Gulag, Mondadori, Milano
Solženicyn, A. (1999): Una giornata di Ivan Denisovič, Einaudi, Torino
“The Economist”, The Rise of State Capitalism, Jan 21st 2012
Uchatius, W. (2011): Kapitalismus in der Reichtumsfalle, In: “Die Zeit”, 10.11.2011 Nr. 46. Traduzione italiana: (2011) La fine del capitalismo. In: “Internazionale” 929, 23 dicembre 2011
Varoufakis, Y. (2011): The Global Minotaur, Zed Books Ltd, London

Filmografia
Achbar, M. e Abbott, J. (2003): The Corporation, 145 min., Canada, (The Corporation)
Chandor, J.C. (2011): Margin Call, 107 min., Stati Uniti, (Margin Call)
Foley, J. (1992): Glengarry Glen Ross, 100 min., Stati Uniti, (Americani)
Hanson, C. (2011): Too Big to Fail, 110 min., Stati Uniti, (Too big to fail – Il crollo dei giganti)
Lee, S. (2002): 25th Hour, 135 min, Stati Uniti, (La 25ª ora)
Stone, O. (1987): Wall Street, 126 min., Stati Uniti, (Wall street)
Stone, O. (2010): Wall Street: Money Never Sleeps, 133 min., Stati Uniti, (Wall Street – Il denaro non dorme mai)

Sitografia
http://blog.ilmanifesto.it/finanzaaigatti/tag/mutuo-subprime/ (blog de “il manifesto”): Che cos’è un mutuo subprime?
http://en.wikipedia.org/wiki/Occupy_Wall_Street: Occupy Wall Street
http://varoufakis.files.wordpress.com/2010/11/modest-proposal-3-0-may-2012-without-rebalancing-mechanism.pdf: Varoufakis, Y. e Holland, S. (2012): Modest proposal for overcoming the euro crisis (versione 3.0)
http://www.economist.com/node/21548255: The Proust index.
http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Finanza%20e%20Mercati/2008/09/fannie-freddie- scheda.shtml: Fannie Mae e Freddie Mac. Cosa sono?
http://www.nonsolofondi.it/approfondimenti/cdscosa.htm: Cosa sono i Credit Default Swap?
http://www.online-literature.com/swift/947/: Swift, J. (1729): A modest proposal. Traduzione italiana (2010): Una modesta proposta, Feltrinelli, Milano
http://www.repubblica.it/economia/finanza/2011/10/31/news/cos_lo_spread-24181937/: Cos'è lo spread
http://www.soldionline.it/guide/glossari/il-glossario-della-finanza-a: Il Glossario della finanza
http://www3.lastampa.it/domande-risposte/articolo/lstp/455633/: Che cosa sono gli Eurobond?

[1] Un CDS (Credit Default Swap) è un contratto sulla base del quale un soggetto trasferisce a un altro il rischio di insolvenza relativo a un emittente di titoli di debito.
Il venditore si assume il rischio di inadempienza mentre il compratore acquista protezione a fronte del pagamento di un premio. (fonte: nonsolofondi online)
[2] Fannie Mae e Freddie Mac (rispettivamente Federal National Mortgage Association e Federal Home Loan Mortgage Corporation) sono due società create alla fine degli anni Trenta per garantire i fondi per il mercato immobiliare americano. Sono formalmente società private dalla fine degli anni Sessanta ma hanno sempre avuto una linea di credito garantita per svolgere la loro "missione pubblica". (fonte: “Il Sole 24ore” online)
[3] Il future è un contratto a termine standardizzato, scambiato nei mercati regolamentati, con il quale una parte acquista o vende a un prezzo prestabilito una determinata quantità di beni o attività finanziarie, con consegna a una data futura. Il future è quotato sui mercati regolamentati ed è un contratto con caratteristiche predefinite, che non possono essere quindi determinate autonomamente dall'investitore. (fonte: Il Glossario della finanza online)
[4] Si tratta di prestiti che vengono concessi a soggetti che non potrebbero permetterselo, dunque è per definizione molto rischioso. E proprio per questo ha un tasso di interesse molto alto. È il contrario dei “prime rate”, che invece sono i prestiti che hanno tassi di interesse molto favorevoli. (fonte: La finanza ai gatti, blog de “il manifesto”.
[5] Hedge Fund è un termine che indica fondi a rischio coperto. Nella prassi, si tratta di fondi, spesso con sede in paradisi fiscali, che non sottostanno a leggi e vincoli garantistici, e che rispondono all'unico scopo di far guadagnare i sottoscrittori su qualsiasi mercato (valutario, azionario, future, option, ecc.) e con qualsiasi tipo di mercato (al rialzo, al ribasso, oscillante). Spesso i risultati sono sensibilmente superiori a quelli dei fondi comuni di investimento, ma a prezzo di un rischio altrettanto superiore, e per questo motivo generalmente la quota minima d'ingresso è molto elevata. (fonte: Il Glossario della finanza online)

[6] Per esempio, Franz Biberkopf, il personaggio centrale del romanzo, a un certo punto si mette a diffondere i fogli di propaganda nazionalsocialista senza alcun convincimento ideologico a sostenere l’azione.
[7] Osserverei che è strana questa ricorrenza di un tempo fissato a una sola giornata: più che a un’influenza spensierata di Joyce, credo dipenda dalla rapidità e dalla caducità della vita dei movimenti della finanza, overnight. Overnight è un “termine inglese che indica un'operazione interbancaria con la quale una banca presta del denaro ad un’altra banca con l'impegno che il prestito concesso venga restituito il giorno seguente”. (fonte: Il Glossario della finanza online)
[8] Occupy Wall Street (OWS) è un movimento di protesta che inizia il 17 Settembre 2011 a Zuccotti Park, situato nel distretto finanziario di Wall Street a New York. Il gruppo di attivisti canadesi legato alla rivista “Adbuster” iniziò la protesta, che è stata poi di riferimento a quelle di Occupy e di diversi movimenti nel mondo. Gli obiettivi principali della protesta sono l'ineguaglianza economica e sociale, l'avidità, la corruzione e l'indebita influenza delle grandi corporations sui governi – in particolare del settore dei servizi finanziari. Lo slogan di OWS, “We are the 99%,” sintetizza la crescente ineguaglianza nella redistribuzione del reddito e della ricchezza negli Stati uniti, tra l’1% più ricco e il resto della popolazione. Per portare avanti i loro obiettivi, i manifestanti agiscono sulla base di decisioni prese collettivamente in assemblee che enfatizzano il ruolo dell'azione diretta rispetto petizioni inviate alle autorità. (fonte: Wikipedia)
[9] Da questo punto di vista è straordinaria l’esperienza del “microfono umano”, un espediente usato dapprima a Zuccotti Park, uno dei luoghi simbolo del movimento di opposizione a Wall Street, dove la polizia impediva la presenza e l’uso di strumentazioni tecnologiche, e poi esteso ovunque. Il microfono umano, anche conosciuto come “il microfono del popolo” viene usato per comizi all’aperto in cui le persone che stanno vicino all’oratore ripetono quello che ha detto amplificando la sua voce senza bisogno di attrezzature. L’oratore inizia dicendo “mic check” – controllo microfono. Quando la gente vicino risponde “mic check”, l’oratore sa che ha l’attenzione del gruppo. Quindi, dice una frase breve e si ferma. Quelli che stanno vicino e hanno sentito ripetono la frase all’unisono, consentendo a chi è più lontano dall’oratore di ascoltare le sue parole, e quando a loro volta hanno finito, l’oratore dice un’altra frase, quindi si ferma di nuovo, e si va avanti così fino alla fine del comizio. È come si fosse in una lettura collettiva, una narrazione pubblica.
[10] Spread: dal sostantivo inglese “scarto”. È il differenziale di rendimento tra un’obbligazione e un’altra, solitamente meno rischiosa e perciò detta benchmark, “di riferimento”. Lo spread determina gli interessi che si pagheranno sul debito pubblico, e indica il rischio percepito di chi emette l'obbligazione (se è un titolo di Stato si parla di rischio-paese). Uno spread troppo ampio fa lievitare gli interessi passivi, rende difficile emettere nuovo debito e compromette il rating, che è il giudizio di solvibilità dell’azienda o del paese emittente. Nella cronaca dei mercati lo spread indica lo scarto tra il Bund tedesco – l’emissione più solida d’Europa – e i titoli di Stato di paesi con maggiori probabilità di insolvenza. (fonte: “la repubblica.it” online)
[11] Non può che suonare bizzarro un titolo di “The Economist” (2012, Feb 25th 2012) per un articolo in cui si dà conto dell’effetto di contraccolpo della crisi sulle economie occidentali – una sorta di orologio all’indietro – attraverso una serie di indicatori, dal Pil ai salari al prezzo delle case, e di grafici,: The Proust Index, come a dire del “tempo economico perduto”, lost econmic time.
[12] In Grecia, per esempio, le tasse sulla casa arrivano insieme alle bollette del gas e della luce.
[13] Bund, titoli di Stato tedeschi a medio termine. Il loro nome ufficiale è Bundesanleihen, obbligazioni federali. Da quando la Repubblica federale esiste, i Bund, come li chiamano sui mercati, sono un investimento sicuro, anche se promette rendimenti molto bassi. Anzi, talvolta i rendimenti reali netti finiscono per essere negativi (fonte: I quaderni di Affari&Finanza, 2011)
[14] È un termine utilizzato per l’ipotetica creazione di un titolo di debito pubblico emesso da uno dei 17 Paesi a moneta unica, ma sottoscritto da tutti gli Stati dell’Eurozona. In questo modo ne viene garantita congiuntamente la solvibilità riducendone il rischio associato.

Come funziona un eurobond?
Il meccanismo è quello di un’obbligazione tradizionale: il titolo ha un valore nominale, una scadenza e un tasso di interesse il cui corso è inverso a quello del prezzo del titolo, e in base al quale viene staccata l’eventuale cedola. (fonte: “lastampa.it” online)

pubblicato su Andare oltre. La rappresentazione del reale fra letterature e scienze sociali, a cura di Renate Siebert e Sonia Floriani, Pellegrini editore, Cosenza, 2013
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