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salva invia
29 Marzo 2014
Dalla parte dei populismi
La mia previsione, per le prossime elezioni europee, è che benché ci sarà un forte astensionismo [io sono per l’astensionismo, che raggiungendo una soglia alta “mostrerebbe” meglio quanto è già nei fatti, che cioè quest’Europa è incostituzionale e illegittima] e un risultato significativo dei partiti euroscettici [da Nigel Farage, il leader inglese dell’Ukip, ai fiamminghi, dalla Le Pen a Grillo], il governo venturo dell’Europa sarà una Grosse Koalition, larga intesa tra socialdemocratici e popolari. Ne avranno i numeri, probabilmente una maggioranza non proprio esuberante, ma tutti gli altri saranno estremamente frammentati, difficilmente compattabili, e soprattutto attenti a strappare provvedimenti “territoriali” da rivendicare – nelle decisioni delle commissioni – che non combaciano con gli interessi particolari di altre rappresentanze. Penso, a esempio, a quanto poco possano intrecciarsi gli interessi dei francesi della Le Pen con quelli olandesi del Partito per la libertà olandese di Geert Wilders o quelli tedeschi dell’Alternativa per la Germania, fondato da Bernd Lucke, docente di macroeconomia all’Università di Amburgo, insieme a un gruppo di docenti, giornalisti e imprenditori dalla solida formazione accademica; una parte consistente è formata da imprenditori: tra questi, Hans-Olaf Henkel, già presidente del Bundesverband der Deutschen Industrie, omologo della nostra Confindustria, ora candidato alle elezioni europee; insomma, la versione “liberista” della lista italiana “di sinistra” della Spinelli. Forse, tutti insieme strepiteranno su alcune cose “di bandiera” – come un controllo maggiore alle frontiere e una più rigida pratica delle espulsioni – e forse sullo spostamento di flussi finanziari dalla formazione verso le zone delle dismissioni delle fabbriche [dal nord della Francia all’Italia, dal nord dell’Inghilterra al Belgio], una sorta di Cassa integrazione europea – e magari si stamperà un po’ più di moneta. In realtà, tutti questi partiti euroscettici “usano” l’Europa per un radicamento elettorale nei propri confini nazionali [che so, Farage ha già costretto Cameron a proclamare un referendum sull’Europa per il 2017] e questa è l’unica cosa che li unisce.
Non esiste un “populismo europeo”, e non esiste non solo perché non esiste un popolo, un demos europeo, ma perché quel popolo è o troppo giovane ancora o il risultato della fine di un modello di governo e produzione – quello risultato dal Secondo dopoguerra e dal Glorioso trentennio – che è ai margini del futuro [e si difende giustamente]. Il popolo europeo “pensato” dai suoi fondatori è un soggetto marginale. Ovvero il popolo europeo è un particolare, una situazione marginale, ai margini della centralità politica e produttiva d’adesso.
È curioso, ma se cercate la parola “populismo” su un qualunque dizionario dei sinonimi e contrari online, la ricerca vi dirà che non ci sono corrispondenze per il contrario. Per un sinonimo, sì, e è “demagogia”. Ma il contrario di populismo non c’è.
La Treccani.it nella definizione del termine “populismo” ne spiega l’origine storica: «movimento culturale e politico, sviluppatosi in Russia tra il sec. 19° e il sec. 20°, che si proponeva di raggiungere il miglioramento delle condizioni di vita delle classi diseredate». Suona una cosa per bene: migliorare le condizioni di vita delle classi diseredate, no?
Poi, si aggiunge che «spregiatiativamente» viene usato come sinonimo di “demagogia”. Perché mai una cosa per bene sia diventata di uso spregiativo appartiene all’evolversi storica delle parole. Credo che c’entri parecchio la battaglia politica che il leninismo e l’anarchismo fecero contro i narodniki russi, e quella dei democratici americani contro movimenti politici che tra gli anni Venti e Trenta del Ventesimo secolo attraversarono massicciamente gli States, in particolare il Midwest e gli Stati del Sud. Per l’Europa occidentale, l’etichetta spregiativa di “populismo” si affibbiò a quei movimenti politici di piccola borghesia o di artigiani e commercianti, che in genere si mobilitano su questioni fiscali.
D’altra parte, pure la definizione del termine “demagogia” lascia sconcertati: «pratica politica tendente a ottenere il consenso delle masse». Non sembra una cosa malvagia, «ottenere il consenso delle masse»: cos’altro dovrebbe fare un sistema politico o un leader, sparargli addosso, alle masse?
Insomma, il populismo non ha un “opposto lessicale”, un nemico linguistico. E il suo sinonimo, la demagogia è una prassi politica comune – che so, Berlusconi che promette le dentiere gratis o manda a casa la “carta dei poveri” per fare un po’ di spesa, oppure Renzi che annuncia come primo gesto del suo governo ottanta euro in più su alcune buste-paga e la decurtazione degli stipendi eccessivi dei manager pubblici, oppure, per metterla in grande, Obama che si batte per estendere il Medicare o la Merkel che vara un programma di progressivo smantellamento delle centrali nucleari – per ingraziarsi gli elettori.
Perciò, dire a esempio: il populismo è demagogico, è una tautologia, sono sinonimi, e non spiega nulla.
E dire, a esempio: il populismo è anti-democratico, è una cosa falsa. La democrazia non è il contrario del populismo. Ovvero, i populismi vivono e crescono attraverso la democrazia. E la democrazia – come insegnano e raccomandano i teorici del pensiero liberale – non è un’ideologia, e non è perciò opponibile al populismo, ma un sistema di regole. E se, come nella tradizione del pensiero democratico e radicale, si srotola piuttosto quel sistema di regole in valori e principi declinandoli – la democrazia popolare, la democrazia diretta, la democrazia dal basso – si rafforza l’etimologia del termine, quel “potere del popolo” che tanto somiglia alle intenzioni del populismo.
Perciò, è qui il punto: il popolo. Nella tradizione democratica e di sinistra come nella tradizione democratica e borghese, il popolo è un concetto che crea disagio e provoca l’orticaria. Un esempio? Asor Rosa: «II populismo è rappresentazione interessata dell’elemento popolare in funzione dei fini di persuasione ideologica». Che è una frase costruita sull’implicito di una definizione “nobile” all’incontrario, più o meno così: la sinistra è disinteressata e crea partecipazione e consenso. Bah. Per la tradizione democratica e di sinistra c’erano solo le classi e il conflitto tra capitale e lavoro e lo Stato con una funzione redistributiva e assistenziale; per la tradizione democratica e borghese c’erano solo gli individui e il mercato e lo Stato doveva ridurre al minimo il proprio ruolo e garantire il diritto di proprietà. La faccio breve, ma il succo è questo. Il popolo, la nazione, la patria, tutti quei concetti “romantici” che ebbero un ruolo determinante nella fine delle grandi monarchie e degli imperi e nella formazione degli stati nazionali, non appartengono al lessico novecentesco delle democrazie. Divennero la prateria della Destra. Con esiti disastrosi e tremendi.
Solo il maoismo, a sinistra, rielaborò il concetto di popolo. E benché l’esperienza maoista abbia affascinato fior di intellettuali in Europa [in Italia e Francia, soprattutto] insofferenti al ruolo di compagni di strada del comunismo occidentale e di pifferai del partito, restò un’esperienza esotica, intraducibile, scimmiottata.
La composizione economica e politica delle classi legata alla grande produzione di massa di beni di consumo e durevoli in una demografia affluente e con un welfare garantito da una quasi piena occupazione è andata in crisi. Quel popolo non esiste più. Quella centralità produttiva e politica non esiste più. E il modello politico che reggeva quel sistema produttivo [grosso modo l’alleanza tra produttori e imprenditori, attraverso le rappresentanze sociali] continua a reggere, con fatica, ma in quanto rappresentante di interessi nazionali, territoriali, nei confronti di un’economia che si è globalizzata e finanziarizzata. Per capirci, la Gran Bretagna è probabilmente il luogo dove questo passaggio si è meglio rappresentato, con la Thatcher che gestisce la fine della produzione industriale [le miniere, la siderurgia, i porti, le tipografie, le ferrovie, i luoghi insomma della estesa sindacalizzazione] e Blair che apre all’arrivo del capitale finanziario. Questo è stato l’abbrivio e ce ne ha messo per mostrare la corda – arrivata con la crisi americana del 2007.
Ma quello che è ai margini, per quanto non riesca a essere definito, non per questo è muto. Il popolo ridonda dalla nostra società attraverso il populismo.
Nell’ultimo decennio circa la tradizione radicale e rivoluzionaria italiana ha sviluppato un concetto forte, quello di moltitudine, per meglio afferrare la complessità delle trasformazioni produttive e la dislocazione della soggettività politica. L’intuizione e l’analisi sono giuste: finora, però, non si sono tradotte in una forma e un agire politici. Chissà.

Nicotera, 29 marzo 2014
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