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10 Ottobre 2012
Le polaroid di Moro
Cronologia

16 marzo
Il 16 marzo 1978, qualche minuto prima delle 9.00 del mattino, l’onorevole Aldo Moro, presidente della Democrazia cristiana, esce dal portone numero 79 di via del Forte Trionfale a Roma. Sono ad attenderlo la 130 blu di rappresentanza e un’Alfetta bianca con la scorta. Il presidente deve prima recarsi al Centro Studi della Dc e poi, alle 10.00, alla Camera dei Deputati; qui l’onorevole Andreotti presenterà il nuovo governo, un monocolore democristiano, che sarà il primo sorretto anche dai voti comunisti, di cui l’onorevole Moro è stato accorto e paziente artefice. Sono le 9.00 e qualche minuto. Nella strada residenziale di via Fani, alla Camilluccia, il traffico è scarso; la giornata è serena, ma la temperatura ancora pungente. Quattro uomini, che indossano impermeabili e berretti dell’Alitalia e portano delle borse, sono fermi nei pressi del bar Olivetti, che ha cessato da tempo ogni attività, all’incrocio tra via Fani e via Stresa. Una Fiat 128 giunge veloce e rapidamente si ferma allo stop dell’incrocio. I quattro uomini fermi al bar superano il marciapiede imbracciando ciascuno un mitra, si avvicinano alle auto e aprono il fuoco. La 130 blu è imprigionata tra la 128 davanti e l’Alfetta dietro. Disperatamente l’autista della 130 blu cerca di manovrare per guadagnare un varco. Il crepitare delle armi è infernale. I cinque uomini della scorta vengono uccisi; uno di essi, ancora in vita, muore poco dopo all’ospedale. Il presidente della Dc è prelevato dal sedile posteriore della 130 blu e trasbordato su un’altra auto. Vengono prese anche le borse che aveva con sé. I componenti del commando salgono sulle proprie auto e si danno alla fuga. L’azione è durata solo pochi minuti. La notizia si diffonde immediatamente: i residenti della zona telefonano alla polizia, che rapidamente invia pattuglie sul posto. Presto in via Fani sorvolata da elicotteri si ritroverà una piccola folla di autorità, poliziotti, carabinieri, magistrati, giornalisti, fotografi e curiosi. Sull’asfalto, un cappello da pilota e un caricatore di mitra. I fogli dei quotidiani che Moro leggeva in auto – e quel giorno lo accostavano di nuovo al caso Lockheed – vanno a coprire il corpo senza vita di un agente della scorta. I giornali radio e quelli televisivi interrompono i programmi e danno le informazioni in una ridda di voci non verificate sulle armi e le auto usate, sul numero e la nazionalità dei componenti del commando, sui testimoni del fatto. Qualcuno evoca il sequestro Schleyer operato dalla Raf tedesca nel settembre dell’anno precedente. I quotidiani preparano le edizioni straordinarie. Sorpresa, incredulità e sgomento sono le parole più ricorrenti, ma sono anche le emozioni che attraversano il paese da un capo all’altro. Intanto, sul luogo è arrivata presto Eleonora Moro, moglie del presidente democristiano. Rientra dopo poco a casa, dove riceve la visita del cardinale Poletti, vicario di Roma. Il Papa, che conosce personalmente Aldo Moro e la moglie, è stato prontamente avvisato degli accadimenti. Telefonate delle Br che rivendicano l’agguato e preannunciano ulteriori messaggi giungono alle redazioni Ansa di diverse città. Alla Camera la seduta prevista è spostata dal presidente Pietro Ingrao dopo un accordo con i capigruppo parlamentari. Il Parlamento è agitato: dichiarazioni di questo o quel personaggio segnano la necessità di prendere atto di uno «stato di guerra», contribuendo ad alimentare un senso generale di incertezza e di confusione. A palazzo Chigi convergeranno presto, per una riunione, segretari dei partiti, esponenti politici e, per i tre sindacati, Lama, Macario e Benvenuto. Il segretario del Partito comunista, Berlinguer, accompagnato da Natta e Pajetta, arriva con una decisione adottata d’impeto: «impedire qualsiasi trattativa». Il paese si ferma. Mentre partono dalle centrali operative delle forze di polizia le prime impacciate disposizioni su piani di ricerca e blocchi di controllo, migliaia di lavoratori escono dai posti di lavoro. Unendosi ad altri cittadini, sciamano per le piazze principali di tutte le città d’Italia, anticipando la proclamazione dello sciopero generale che verrà indetto dai sindacati. Fabbriche, uffici e scuole si chiudono. Molte saracinesche di negozi si abbassano in segno di paura o di lutto. C’è rabbia e senso di impotenza. Ma si registrano, insieme a una diffusa pietà per gli agenti della scorta, anche parole di indifferenza: il potere democristiano non è stato mai molto amato. Le manifestazioni saranno mute, con qualche sventolio di bandiere rosse e bianche, ma segnate soprattutto dall’angoscia, da un bisogno popolare di presenza, dal disorientamento. Le voci accorate di sindacalisti e oratori ufficiali chiamano dai palchi alla «difesa del Paese contro il ricatto del terrorismo», alla mobilitazione, alla «vigilanza e a isolare chi sta a guardare o, peggio, solidarizza con questi criminali». Alle 11.00 circa si riunisce il Consiglio dei ministri: Andreotti comunica che il dibattito alla Camera sulla fiducia al governo sarà necessariamente breve, decisione con cui si sono già dichiarati d’accordo i partiti. Dopo una rapida valutazione dei fatti, si decide di adottare le prime misure di coordinamento delle attività di polizia. Il ministro degli Interni, Cossiga, convoca per le 11.30 al Viminale i titolari dei dicasteri della Difesa, delle Finanze, di Grazia e Giustizia, i vertici delle Forze Armate e dei Servizi di Sicurezza per dare vita a un Comitato tecnico-operativo che si riconvocherà nel tardo pomeriggio, incaricato di tracciare le linee di ricerca e la gestione dei dati informativi delle investigazioni. Cossiga deciderà anche la costituzione di un gruppo di consulenti, in diretto rapporto soltanto con lui, che possa supportare le indagini con analisi e valutazioni. In serata, il Viminale distribuisce alla stampa le foto dei terroristi latitanti e ricercati. L’elenco, diffuso anche attraverso la televisione, contiene numerose inesattezze ma anche precise indicazioni. Viene inoltre trasmesso un numero di telefono a cui chiunque può fornire informazioni coperte da segretezza. Poco dopo mezzogiorno, Andreotti legge alla Camera una dichiarazione programmatica che ripeterà più tardi di fronte al Senato: il governo, con il suo programma, viene approvato rapidamente. In serata, il presidente del Consiglio è apparso alla televisione parlando di fermezza e difesa dello Stato. Nel pomeriggio, il procuratore capo della Repubblica, De Matteo, che in mattinata ha partecipato al vertice al Viminale, convoca i sostituti procuratori e assume la direzione delle indagini, assicurando un lavoro collaborativo. I primi sopralluoghi sono stati compiuti dal sostituto di turno, Infelisi. Interrogato dai giornalisti, De Matteo dichiara che c’è la possibilità di applicare uno «stato di pericolo pubblico». La direzione democristiana riunita in permanenza, tramite il suo segretario Zaccagnini, definisce l’agguato di via Fani «un attacco alla nuova maggioranza». È la stessa conclusione – trasmessa alla stampa – a cui sono giunti i comunisti. Da tutto il mondo cominciano ad arrivare messaggi di solidarietà e dichiarazioni di sostegno. Da americani, tedeschi e inglesi anche offerte di collaborazione tecnico-logistica.
Aldo Moro è a via Montalcini, prigioniero delle Br. Il Tribunale del Popolo gli comunica l’inizio del processo nei suoi confronti.

17 marzo
All’alba viene ritrovata in via Licinio Calvo, a poche centinaia di metri da via Fani, la Fiat 128 bianca usata nell’agguato a Moro. Un’altra macchina, una Fiat 132 blu, era stata trovata nella stessa strada la mattina precedente. Macchie di sangue fanno temere per l’incolumità del presidente della Dc. C’è chi interpreta il ritrovamento come una «sfida» da parte delle Br, una beffa giocata ai danni degli investigatori e dei severi controlli instaurati nella zona. Qualcuno si interroga se questo ritrovamento tardivo non sia piuttosto un clamoroso indice dell’inadeguatezza delle ricerche e della confusione che regna sovrana in un clima di sovreccitazione generale. Sui maggiori giornali nazionali, così come alla radio e in televisione, appaiono editoriali e articoli che proclamano preventivamente fermezza contro ogni trattativa e qualsiasi richiesta di scambio e invocano leggi straordinarie; ma soprattutto si dà libero corso a suggestioni di intrecci e trame internazionali per spiegare la spaventosa efficienza dell’attentato. Anche i comunisti scrivono di «complotto internazionale». Qualcuno si chiede perché mai Moro non viaggiasse con un’auto blindata. Ampio risalto viene dato alle manifestazioni sindacali in tutte le città italiane, enfatizzandone aspetti di compostezza e di difesa popolare della democrazia in pericolo. I quotidiani pubblicano le foto dei terroristi ricercati diramate dal Viminale. Presto arriveranno le prime smentite di persone assolutamente estranee ai fatti, mentre il telefono a cui indirizzare le segnalazioni dei cittadini sarà sommerso di indicazioni fasulle e fantasiose. Vengono diffusi anche degli identikit, sulla base di testimonianze raccolte e delle prime indagini attorno al cappello da aviere trovato a via Fani. Posti di blocco e perquisizioni di appartamenti e di interi caseggiati vengono fatti in tutta Italia. Roma sembra una città in stato d’assedio. Si tiene un vertice in procura, con il procuratore capo, i sostituti procuratori e i responsabili dell’ordine pubblico. Il sostituto procuratore Infelisi firma 60 ordini di perquisizione in città. Inizia una gigantesca caccia all’uomo.
Nel corso della mattinata si riunisce a palazzo Chigi il Comitato Interministeriale di Sicurezza (Cis), cui è affidata la gestione politica della situazione. Dopo una prima e più approfondita valutazione dei fatti di via Fani, in cui viene rilevata l’inadeguatezza della scorta dell’onorevole Moro, si prende in esame la possibilità di modificare alcune norme penali. Il Comitato tecnico si vedrà nel pomeriggio. Le Br telefonano a un giornalista del quotidiano romano «Il Messaggero» annunciando di avere lasciato un comunicato nel sottopassaggio tra largo Argentina e via Arenula presso una fotocopiatrice. Per due volte il giornalista va nel luogo indicato senza trovare nulla. A Torino, nella pausa del processo in corso da tempo contro il cosiddetto «gruppo storico» delle Br (Curcio, Franceschini, Semeria, Ferrari, Bertolazzi e altri), gli inviati dei quotidiani – che si aspettavano clamorose rivendicazioni – registrano invece un assorto silenzio. A palazzo Chigi il presidente del Consiglio incontra, nel pomeriggio, i segretari dei partiti di maggioranza (Zaccagnini per la Democrazia cristiana, Berlinguer per il Partito comunista, Craxi per il Partito socialista, Romita per il Partito socialista democratico, Biasini per il Partito repubblicano). Alla riunione si parla degli organi di informazione, del senso di responsabilità che devono assumere per evitare il diffondersi della paura e dell’indifferenza. Andreotti espone un piano di intervento basato sull’introduzione di nuove norme: fermo di polizia, uso di intercettazioni telefoniche e foniche (tra cui l’installazione di apparecchi di ascolto nelle celle dei brigatisti rossi detenuti a Torino per il processo) e coordinamento delle banche-dati delle diverse forze di polizia. Zaccagnini si dichiara d’accordo. Berlinguer si dice convinto piuttosto della necessità di rafforzare leggi già esistenti e del potenziamento d’organico delle forze dell’ordine. L’asse principale della maggioranza di sostegno al governo, il rapporto Dc-Pci, si struttura. Gli altri partiti appoggiano sostanzialmente il senso dei provvedimenti. Il clima da emergenza spinge all’inasprimento delle norme e a dare più poteri alla polizia. Al termine della riunione, viene diramato un comunicato in cui, sottolineando l’atteggiamento di fermezza delle istituzioni repubblicane, si fa appello «alla collaborazione di tutti i cittadini». Dopo
l’incontro con i partiti, Andreotti e Cossiga vanno al Quirinale per
informare il capo dello Stato, Leone.
Di Aldo Moro nessuna traccia. Nella «prigione del popolo» Mo-
retti inizia l’interrogatorio. Indossa un passamontagna.
La famiglia vive ore terribili nell’incertezza sulla sua sorte.

18 marzo
A mezzogiorno qualcuno telefona di nuovo al «Messaggero» di Roma indicando dove trovare una busta contenente un comunicato delle Br. Un redattore accorre e lì stavolta trova il plico. Dentro c’è il comunicato n. 1, con cui le Br rivendicano e motivano l’azione di via Fani. È battuto con una macchina elettrica IBM a testina rotante che – si dice – sarà usata come segno di autenticità. Insieme a varie copie del comunicato c’è una foto polaroid che ritrae Moro sotto un drappo con la stella a cinque punte delle Br. Il presidente della Dc è vivo. La notizia crea sollievo e apprensione nello stesso tempo. Tra i democristiani parole di dolore, angoscia e speranza si mescolano a quelle sul senso dello Stato, sul bisogno di non mostrare cedimenti, sulla necessità di fermezza. Unità e rigore saranno le parole usate da Berlinguer. Eleonora Moro si accorge che la camicia del marito è diversa da quella indossata uscendo di casa il 16 marzo. In un’intervista rilasciata al «Corriere della Sera», Pecchioli, responsabile per il Pci dei problemi dello Stato, si dice sicuro di infiltrazioni eversive in ambienti del servizio pubblico come gli ospedali. Inoltre parla di collegamenti tra l’area dell’autonomia e le Br e dell’urgenza di rompere questa catena di solidarietà eversiva. Lama, segretario generale della Cgil, su «l’Unità», chiede ai lavoratori di guardarsi attorno e di non far finta di non vedere fatti e per-sone sospetti. Nel pomeriggio si svolgono al cimitero del Verano, officiati dal cardinale Poletti, i funerali dei cinque uomini della scorta di Moro. Attorno ai familiari c’è commossa partecipazione ma non una folla enorme, e qualcuno scriverà di una Roma assente. Presenti invece tutti i leader politici e le autorità, per un funerale di Stato attraversato dai cortei dei giovani democristiani e da comunisti che lanciano slogan e sventolano bandiere. Ai colleghi dei poliziotti e dei carabinieri uccisi saltano i nervi; qualcuno sparerà uno o più colpi di pistola attraverso i cancelli della vicina Casa dello Studente di via De Lollis, dove si ritrovano abitualmente anche militanti della sinistra extraparlamentare. La sera, a Milano, Fausto e Iaio, due giovani del Leoncavallo, vengono uccisi davanti la sede del centro sociale. L’impressione è enorme, la tensione altissima. Per tutta la notte migliaia di persone si radunano nel quartiere portando la loro rabbia. Battute a tappeto, alla ricerca di Moro, vengono effettuate nel corso della giornata nelle campagne attorno Roma. In città continuano le perquisizioni e i controlli di caseggiati. In un condominio di via Gradoli gli agenti incaricati di zona si presentano davanti all’interno 11 ma, non ricevendo risposta ai ripetuti scampanellii, se ne vanno. Solita riunione del Comitato tecnico-operativo. Iniziative e proposte sono sempre più caratterizzate da un clima d’assedio, ma anche d’attesa. Moro chiede una Bibbia ai suoi carcerieri.
19 marzo
È domenica delle Palme. In una città blindata il Papa, dal balcone di piazza San Pietro, invita i fedeli a pregare per la vita di Moro. Su tutti i quotidiani viene pubblicata la foto di Moro prigioniero: la pietà lascia posto alla retorica. Vengono rilevate analogie con il caso Sossi. Manifestazioni di giovani e studenti si tengono in diverse città contro l’uccisione di Fausto e Iaio a Milano. A Roma la manifestazione è vietata. Il centro sociale Leoncavallo chiede che si proclami uno sciopero generale. I vertici sindacali cittadini si mostrano riluttanti. All’interno c’è comunque polemica con le dichiarazioni di Pecchioli a proposito della «scarsa vigilanza sui luoghi di lavoro contro le infiltrazioni eversive». I segretari confederali, che hanno incontrato la magistratura e il Comandante generale dell’Arma dei carabinieri, Corsini, tengono una riunione riguardo alle probabili nuove leggi di «emergenza». Il Comitato esecutivo nazionale di Magistratura democratica diffonde un comunicato contro ogni legge eccezionale ed esprime il convincimento che «il necessario rigore di intervento non può attuarsi ricorrendo a ulteriori misure restrittive delle garanzie di libertà». A Torino c’è tensione per l’appuntamento dell’indomani con la riapertura del processo ai brigatisti detenuti. Oltre all’attesa per eventuali comunicati, resta aperta la questione posta dagli imputati del diritto all’autodifesa, che ha messo in difficoltà gli stessi avvocati difensori, ricusati dai loro assistiti. A sera viene ritrovata, ancora in via Licinio Calvo, una terza auto usata dai brigatisti del commando di via Fani, una 128 blu. Vengono rilevate tracce di sangue sullo sterzo e sulla portiera, ma ormai si sa che non appartengono al presidente democristiano.
20 marzo
Riprende a Torino il processo alle Br. Il presidente della Corte, Barbaro, rigetta la richiesta, proveniente dal ministero degli Interni per ragioni di sicurezza, di svolgere il processo «a porte chiuse». Viene disposto che le riprese filmate possano effettuarsi per un periodo limitato. I brigatisti detenuti chiedono di leggere un comunicato e, quando gli viene negato, urlano contro quello che considerano un vero e proprio processo politico. Suonano impacciate le parole di Barbaro, per il quale invece quello in corso è un processo «normale». Gli imputati lasciano l’aula dopo aver rivolto alla Corte, ai cronisti e al pubblico frasi dure sul «controprocesso che si svolge altrove, alla Dc e a tutta la classe politica». È il riferimento a Moro che tutti si aspettavano. Ma si ferma qui. Volantini delle Br con il comunicato n. 1 vengono ritrovati alla Fiat Mirafiori: la Federazione lavoratori metalmeccanici parla di provocazione. I sindacati – che hanno dovuto rinunciare, per questioni giuridiche, alla costituzione di parte civile nel processo di Torino – hanno preparato un loro piano antiterrorismo da sottoporre a Cossiga. Le esigenze di sindacalizzazione delle forze di polizia passano in se-condo piano rispetto ai progetti di potenziamento. All’Università di Roma si tengono contemporaneamente due assemblee: è un segno di fratture precedenti e della difficoltà di iniziativa del movimento di fronte all’azione di via Fani. Nella prima assemblea, il Comitato di Lettere esprime una durissima condanna della logica delle Br e considerazioni sulla repressione in atto. Nella seconda, dove è soprattutto presente l’area dell’autonomia, è forte il senso di attanagliamento tra le Br e lo Stato. Si rilancia un discorso sull’esercizio di massa della violenza e sul bisogno di scendere in piazza. Viene indetta una manifestazione per venerdì 24. A palazzo Chigi si riunisce il Cesis (Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza) alla presenza del presidente del Consiglio. Battute e ricerche continuano a essere effettuate ma non si intravede alcuno spiraglio, mentre centinaia di segnalazioni impegnano le pattuglie in estenuanti e inutili controlli. Le segreterie dei partiti discutono della necessità di evitare il dibattito parlamentare sulle questioni attinenti al caso Moro «per non compromettere le operazioni in corso».
21 marzo
Viene pubblicata sul quotidiano «Il Tempo» un’intervista a McLuhan, in cui l’esperto internazionale di comunicazioni di massa afferma la necessità di introdurre una sorta di black out della stampa. Questa dichiarazione si affianca alle interviste a Eugenio Montale sul «Corriere della Sera» e a Paolo Murialdi, presidente della Federazione della Stampa, riguardo alla pubblicazione o meno dei comunicati delle Br. Anche il Pci aveva espresso critiche molto dure nei confronti di quei quotidiani che avevano pubblicato integralmente il comunicato n. 1, considerandola una forma orribile di pubblicità. Viene approvato dal Consiglio dei Ministri un decreto-legge contenente le nuove norme antiterrorismo; esse contemplano, tra le altre cose, la possibilità di svolgere interrogatori senza avvocati, l’obbligo per i proprietari di appartamenti di comunicare entro 48 ore il nome degli affittuari, sconti di pena per i delatori pentiti. Nonostante l’evidente inasprimento, c’è chi le considera insufficienti: in un editoriale sulla «Voce Repubblicana», il segretario La Malfa le giudica palliativi e insiste per il coprifuoco e la pena di morte. Riunione al Viminale del Comitato tecnico-operativo. È assente Cossiga e, in sua vece, tiene l’incontro il sottosegretario agli Interni, Lettieri. Intanto, ad affiancare i colleghi italiani, arrivano dall’Inghilterra agenti specializzati nella lotta al terrorismo dell’Ira e due funzionari del nucleo di polizia criminale tedesca. Una delle borse di Moro viene ritrovata nella Fiat 130 blu custodita nel garage della Questura insieme alle altre auto coinvolte a via Fani. Altre due borse erano state consegnate ai carabinieri il giorno precedente. L’udienza del processo di Torino ai capi storici delle Brigate rosse ruota attorno alla questione del diritto all’autodifesa posto dagli imputati. Un gruppo consistente di avvocati d’ufficio, dopo lunghissime riunioni, ha deciso di presentare alla Corte un’eccezione di incostituzionalità, a cui si associa l’avvocato Guiso, difensore di fiducia di un imputato latitante. La Corte sospende l’udienza e si riunisce in Camera di consiglio per decidere nel merito: se l’eccezione venisse accettata si provocherebbe un inevitabile rinvio. Diversi avvocati sembrano accogliere l’evidenza del carattere «politico» del processo. Nella gabbia dell’aula della caserma Lamarmora – dove, per motivi di sicurezza, ha luogo il dibattimento – ci sono solo tre «osservatori» brigatisti che prendono scrupolosamente appunti. Durante lo svolgimento dei congressi regionali, in preparazione del Congresso nazionale del Partito socialista – che si terrà a Torino come segno di fermezza – la lista del segretario Craxi e del vicesegretario Signorile raccoglie la maggioranza dei consensi. Volantini delle Br vengono nuovamente ritrovati alla Fiat Mirafiori. Un pacco di comunicati, identici a quello con cui è stata rivendicata l’azione di via Fani, è stato lasciato davanti alla porta zero dello stabilimento. Ci si comincia a interrogare su quella «area grigia» operaia, indifferente alle mobilitazioni e agli appelli alla collaborazione.
22 marzo
A piazza del Gesù, la sede della Dc è continuamente visitata da militanti cattolici d’ogni parte d’Italia. Attorno al segretario Zaccagnini si è costituita una delegazione permanente che comprende i vice-segretari Galloni e Gaspari, i capi dei gruppi parlamentari Pic-coli e Bartolomei, e altri collaboratori come Bodrato, Salvi e Belci, direttore del «Popolo». Viene convocata per la fine del mese una riunione dei consiglieri regionali e provinciali, di parlamentari e membri del Consiglio nazionale del partito. Ma l’iniziativa politica sembra tutta nelle mani del governo. A Milano un’imponente manifestazione sfila per i funerali di Fausto e Iaio. Sciopero nelle scuole e in diversi stabilimenti, con l’adesione di numerosi Consigli di fabbrica dopo dure polemiche all’interno dei sindacati. Al processo di Torino la Corte ha respinto l’eccezione di illegittimità costituzionale avanzata dagli avvocati d’ufficio, relativamente alla richiesta di autodifesa degli imputati. Il presidente Barbaro ha motivato il giudizio insistendo sul carattere «ordinario» del processo. La «delegazione» brigatista in aula non ha mostrato particolare interesse al dibattito, come se ne aspettasse un esito scontato. L’udienza è rinviata alla settimana successiva.
A Genova, dove in alcune fabbriche si svolgono dibattiti sul terrorismo tra gli operai, vengono ritrovati volantini delle Br davanti agli stabilimenti dell’Ansaldo, dell’Italsider e a Sampierdarena. Volantini brigatisti vengono rinvenuti anche in una stazione della metropolitana di Milano. Dalla Cisl di Milano viene avanzata una critica a un’ipotesi che sembra circolare in ambienti sindacali della Cgil: quella di istituire nelle fabbriche ronde operaie di vigilanza contro i terroristi. Il presidente della Camera, il comunista Pietro Ingrao, rilascia una lunga intervista a «l’Unità» in cui accenna all’ipotesi di manovre destabilizzanti di un’oscura centrale. Inoltre teme che il pericolo di uno scontro tra «corpi militari» dello Stato e delle Br finisca con il sequestrare la politica alle masse; quindi considera sciagurata la parola d’ordine «né con lo Stato né con le Br» perché alimenta l’indifferenza sociale. Anche Amendola, della direzione comunista, interviene sulla necessità di isolare il terrorismo facendogli terra bruciata attorno. Nella quotidiana riunione del Comitato tecnico-operativo, oltre all’ipotesi di introdurre una taglia, viene sollevato il problema del comportamento della stampa. Intanto scoppia sui quotidiani il «caso di coscienza» dei giornalisti. Undici direttori di giornali vengono intervistati da Giampaolo Pansa della «Repubblica» sull’eventualità della pubblicazione di confessioni di Moro. In generale le opinioni, sebbene dichiarino per principio un fermo rifiuto di applicare l’autocensura, sono improntate ad atteggiamenti di estrema prudenza e cautela. Il timore di fungere da megafoni dell’iniziativa brigatista costringe a un irrigidimento. Sui quotidiani si allarga anche la riflessione sulle radici del terrorismo e sul comportamento degli intellettuali di fronte all’esplosione del fenomeno. Tra gli altri, interviene Sciascia, chiamato in causa per il «silenzio degli intellettuali», che rilascia una dura dichiarazione. Una borsa con documenti del marito viene riconsegnata a Eleonora Moro. Era stata lei stessa a chiederne la restituzione. Le indagini sono a un punto morto.
23 marzo
A Botteghe Oscure, sede nazionale del Pci, si tiene un incontro tra i vertici del partito e i segretari regionali. Insieme all’orgoglio per le manifestazioni di piazza immediatamente dopo il sequestro di Moro si colgono riflessioni preoccupate sull’indifferenza di un’area grigia operaia. È ancora lo slogan «né con lo Stato né con le Br» a inquietare. Buona parte dei funzionari comunisti esprimono l’idea che la vicenda cominciata il 16 marzo sarà lunga e dura. In-tanto Chiaromonte, in un articolo su «Rinascita», rivista teorica del partito, scrive di probabili interferenze di servizi segreti per bloccare lo scenario politico nazionale che si è aperto con le ultime elezioni. La federazione sindacale Cgil-Cisl-Uil discute dei provvedimenti antiterrorismo varati dal governo e in un comunicato unitario esprime la propria approvazione, condizionandola a una durata limitata alle circostanze eccezionali. A Milano si acuisce la polemica a proposito delle ronde di fabbrica tra la Cgil, da una parte, e la Cisl e la Uil, dall’altra: in queste ultime sono numerosi i delegati vicini alla sinistra extraparlamentare. Il Pci in un’assemblea operaia alla Face Standard, che con la Sit-Siemens è considerata una delle fucine della sovversione, ha proposto dei «gruppi di studio sul terrorismo», con lo scopo anche di individuare i terroristi e coloro che li appoggiano. La proposta ha creato spaccature nell’assemblea. Il segretario della Cgil, Lama, rilascia al Gr2 una dichiarazione di sostegno alle norme antiterrorismo. Parla anche di «gente che civetta con frange estremiste», che andrebbero espulse dal mondo del lavoro. McLuhan, intervistato questa volta dal «Corriere della Sera» sul comportamento dei media rispetto al terrorismo, riafferma la possibilità di sospendere tutte le trasmissioni radio e Tv. Cautela e preoccupazione per l’autoresponsabilità viene espressa anche da un gruppo di storici. Riunione a palazzo Chigi del Comitato di coordinamento per l’ordine pubblico tra gli esperti dei partiti di maggioranza. Si è parlato di un rafforzamento degli organici per circa diecimila uomini, della necessità di coordinamento delle forze di polizia e di altri provvedimenti da attuare. Proprio alla mancanza di coordinamento, oltre che all’insufficienza dei mezzi, si deve – a parere di alcuni magistrati – l’assenza di risultati nelle indagini. Vengono additate come questioni da affrontare presto la dispersione delle istruttorie tra le procure di tutt’Italia, lo scollegamento tra procure e uffici istruzione, la mancanza di una banca-dati. Le indagini registrano la convinta identificazione di uno degli uomini del commando di via Fani, Prospero Gallinari, già ricercato da tempo per un’evasione e noto militante delle Br; inoltre, l’arresto di una donna, Brunhilde Pertramer, che verrà presto scarcerata per l’assoluta inconsistenza delle accuse.
24 marzo
Boato scrive su «Lotta Continua» un lungo intervento dal titolo Né con lo Stato né con le Br, sulla necessità di riprendere il dibattito nel movimento sui problemi posti dal rapimento di Moro, il cui effetto principale è indicato nell’accelerazione di una trasformazione autoritaria dello Stato. Quanto alle radici delle Br, per Boato si riconducono chiaramente alla «tradizione stalinista» che nulla ha a che fare con il ciclo di lotte del ’68-69. Dura la valutazione sul comportamento del Pci e del sindacato, sull’ossessione della lotta all’estremismo. Si allungano le adesioni in coda a un appello di intellettuali, pubblicato dall’«Unità», contro la violenza e il terrorismo. C’è anche chi, come Cases su «il manifesto», considera quelle firme in nome della cultura un sostegno alla barbarie. Ci si interroga sui giornali a proposito degli effetti di saturazione che l’eccessiva drammatizzazione della vicenda Moro può provocare nel pubblico. Dura poco. Settimelli su «l’Unità» racconta della minuta vita quotidiana che si svolge nelle questure, tra funzionari della Digos (l’ex Ufficio politico) oberati di lavoro e decine di poliziotti impegnati a registrare su nastro centinaia di telefonate con indicazioni inutili: milleduecento segnalazioni al giorno al «113» e duecento chiamate al numero di «sicurezza». Sul «Corriere» si invita il cittadino a esercitare il «colpo d’occhio» per individuare la prigione di Moro, riferendo alla polizia notizie su nuovi inquilini, nuovi appartamenti, lavori di insonorizzazione, uso di medicinali. A Torino le Br sparano all’ex sindaco democristiano Giovanni Picco, ferendolo a un braccio e a entrambe le gambe. L’attentato si inquadra in quella che le Br definiscono «lotta armata contro gli agenti Dc della controrivoluzione». La «Pravda», organo del Partito comunista dell’Unione Sovietica, nega qualsiasi rapporto tra i suoi servizi segreti e le Br, addossando a forze ultrareazionarie la diffusione di tali notizie. Nei giorni successivi lascerà trapelare l’idea che forse sono i cinesi a stare dietro tutto.
Giuliano Ferrara su «l’Unità» considera tranquillizzante la «teoria del complotto» per spiegare le Br; invita piuttosto a giudicare il terrorismo per la sua storia, le sue radici nell’attualità sociale, politica e culturale della crisi italiana. L’obiettivo critico dell’articolo sembra principalmente una supposta area di connivenza col fenomeno terrorista. Emanuele Macaluso, della direzione del Pci, esprime in un’intervista un parere nettamente contrario alla pena di morte, mentre Biasini, segretario del Partito repubblicano, non ne esclude il ricorso. A seguito di queste dichiarazioni, Amnesty International diffonde un comunicato in cui conferma il suo impegno nel mondo per abolirla. Luigi Granelli, membro della direzione democristiana, molto vicino a Moro, descrive alla «Repubblica», lo stato d’animo della Dc. Tra espressioni di dolore personale per la sorte di Moro, traspare la disanima lucida di un partito ancora politicamente assai diviso sulla strategia che aveva in lui un punto di riferimento. Teme che se accadesse «l’irreparabile» quella maggioranza e quel governo d’emergenza andrebbero presto in crisi. Volantini delle Br vengono ritrovati a Torino in diverse zone della città, a Roma e a Milano. Ci si chiede perché un così lungo silenzio sulla sorte di Moro.
25 marzo
Arriva, nel pomeriggio, il comunicato n. 2 delle Br contemporaneamente a Torino, Roma, Milano, Genova. Vi si annuncia l’inizio del processo ad Aldo Moro. Viene tracciato uno schema di carriera politica, una lista degli incarichi di governo e di partito ricoperti dal leader democristiano. Alla Dc, perno dello Stato imperialista delle multinazionali, viene imputata una storia di politica antioperaia che dagli anni Sessanta passa per il tentato golpe del Sifar di De Lorenzo e la strategia della tensione, fino ai tentativi di trasformazione istituzionale in senso autoritario. Ma non sono risparmiate critiche al Pci, per la sua acquiescenza al progetto democristiano con il compromesso storico, tradendo gli interessi operai. Inoltre, pur ribadendo la necessità di collaborazione tra le organizzazioni combattenti in Europa, il comunicato rivendica la totale autonomia e la capacità militare delle Br. Non c’è alcun cenno a trattative. La notizia giunge alla Camera semivuota. Anche piazza del Gesù e Botteghe Oscure sono abitate da pochi dirigenti. Bufalini e Pecchioli sono tra i primi ad avere il testo ed esaminarlo. Alla sede democristiana arrivano velocemente quasi tutti i componenti lo stato maggiore del partito. Si decide per una nota, da stampare l’indomani sul «Popolo», che Zaccagnini concorda con gli altri esponenti della segreteria. Cossiga si riunisce subito con il suo «supersegreto» gruppo di esperti, composto da intellettuali, psicologi, sociologi, politologi. Gli esperti definiscono il comunicato delle Br come «il più insidioso, politicamente, mai inviato». Il ministro degli Interni incontra anche il capo della polizia e il procuratore capo De Matteo. Manca Infelisi, di cui si sono perse momentaneamente le tracce. Soddisfazione tra agenti e funzionari di polizia e dei carabinieri per l’introduzione delle nuove norme antiterrorismo. Perplessità invece tra molti magistrati, in particolare sulla possibilità di interrogare i fermati senza la presenza di un avvocato e senza verbalizzazione. Da Genova il Pci comunica l’espulsione di sei lavoratori che distribuivano un volantino titolato Né con lo Stato né con le Br. Riunione del Comitato tecnico-operativo in cui viene valutata l’opportunità di sottoporre a Cossiga la richiesta di superare la divisione tra un braccio «operativo» e uno «elaborativo».
26 marzo
È domenica di Pasqua. Eleonora Moro ha deciso di ascoltare la messa in casa con la famiglia evitando così la folla di giornalisti e curiosi che la circonderebbero nella chiesa di solito frequentata. A lei Aldo Moro indirizza la prima lettera dalla prigione del popolo. Brevissima, quasi solo un rassicurante saluto come da un posto lontano. È scritta con la speranza che i suoi «postini» possano farla giungere in tempo per la festività religiosa. Un modo di condividere la ricorrenza. Per fare il punto delle indagini e valutare gli eventuali sviluppi, il presidente del Consiglio si incontra con Cossiga e il capo della polizia, Parlato. I tre, a palazzo Chigi, esaminano anche un rapporto preparato dal gruppo degli esperti attorno a Cossiga sulle probabilità che Moro non venga ucciso. Si è appena all’inizio di un braccio di ferro che – si considera – sarebbe stato lungo. Sulle indagini non ci sono passi in avanti, tranne il mantenimento di una routine quotidiana di perquisizioni e rastrellamenti. Dopo l’approvazione delle nuove norme che danno più poteri e discrezionalità alla polizia, il clima politico e l’atteggiamento della stampa incitano a una maggiore intensificazione delle indagini. Guido Bodrato, braccio destro di Zaccagnini ed esponente di primo piano della direzione democristiana, rilascia un’intervista a «la Repubblica» in cui, oltre a tracciare un quadro della Dc unita e rafforzata dalla sfida terrorista, considera prematuro porre il problema del dopo-Moro, soprattutto perché, pur senza illusioni, spera non si ponga. Proprio sulla sorte del presidente democristiano, Bodrato dice di non poter comunque esprimere opinioni personali o di partito, perché è un «problema di governo e di Stato». «L’Avanti» osserva che «i terroristi dimostrano di saper trasformare la follia di un atto in un manifesto politico-ideologico dotato di una sua grottesca ma logica coerenza. La risposta democratica può esse-re vincente a patto che non si continui a fingere di avere di fronte un gruppetto di disperati, isolati, braccati, chiusi nella loro follia». Esce su «l’Unità» un lungo intervento di Bufalini: il sequestro di Moro viene letto come la volontà di colpire il progetto di convergenza tra la Dc e le forze del movimento operaio. L’estremismo viene indicato come il nemico da battere. Follia, demenza, delirio, farneticazioni, sono le definizioni più usate per connotare il secondo comunicato delle Br.
27 marzo
Nel movimento, con posizioni differenti, si continua a dissentire dall’iniziativa brigatista. «Lotta Continua» esce con un articolo molto duro che rispedisce al mittente come non graditi «gli onori ai compagni Fausto e Iaio» uccisi al Leoncavallo, con cui si chiudeva il comunicato n. 2 delle Br. Radio Onda Rossa, nonostante una netta presa di distanza, usa toni molto più sfumati: lo scontro armato deve coinvolgere l’iniziativa di massa. Valentino Parlato sul «manifesto» fa riferimento alle manifestazioni operaie del 16 marzo come segno di una forte estraneità popolare alle Br, ma accenna anche al rischio di una santificazione della Dc. La Camera è aperta nonostante sia giorno festivo: uffici semideserti con qualche commesso e tanti giornalisti in sala-stampa, in attesa di notizie. Ingrao sottolinea, in un’intervista al Gr1, questa decisione, motivandola con il momento eccezionale, e per far sì che Montecitorio sia un punto di riferimento per il Paese. Anche il Comitato tecnico-operativo si riunisce elencando le varie operazioni di polizia. Il sottosegretario Lettieri, che lo coordina, in un’intervista si dice convinto che Moro sia ormai lontano; lascia intendere che probabilmente ad aiutare le Br non sono soltanto gruppi di Autonomia operaia ma anche frange estremiste di sinistra tradizionale. Si riunisce anche il gruppo degli esperti del ministero degli Interni. A piazza del Gesù, Zaccagnini prepara la relazione che leggerà ai segretari provinciali e regionali del partito convocati per un incontro nazionale.
28 marzo
In un rapporto di polizia alla procura della Repubblica vengono indicati i primi sette nomi di brigatisti che sarebbero implicati nell’agguato di via Fani e contro i quali il sostituto procuratore Infelisi starebbe per spiccare gli ordini di cattura. Le notizie sui sette sono scarne e imprecise ma non per motivi di sicurezza: la maggior parte delle informazioni risale a diversi anni prima. Il «Corriere della Sera» riporta l’opinione di uno degli esperti del Viminale: «Dei brigatisti latitanti nessuno ha le capacità intellettuali di interrogare Aldo Moro. Non si può escludere che le domande siano preparate da qualche intellettuale “nell’ombra”. E chi può scartare l’ipotesi che questo “intellettuale” non sia un professore universitario?». L’indomani si aprirà a Torino il 41° Congresso del Partito socialista. Sull’atteggiamento dei socialisti in merito alla vicenda Moro è concentrata l’attenzione dei commentatori. L’on. Giacomo Mancini, in un’intervista al settimanale «Panorama», parla di un’ostilità americana nei confronti di Moro: il «caso Lockheed» gli appare come il tentativo più evidente di ostacolarlo. Anche il nuovo numero in edicola di «Osservatorio Politico», la rivista dell’ambiguo Pecorelli, mette in connessione l’affare Lockheed e via Fani, suggerendo un pesante intervento americano. I comunisti, in una dichiarazione di Reichlin, rassicurano il Psi: non intendono ridurne l’influenza politica attraverso una sorta di bipolarismo. Il socialista Giolitti, su «la Repubblica», intravede nell’emergenza un rischio di immobilità politica e nel compromesso storico la sua condizione di lungo periodo.
Sul «Popolo» un articolo a firma di Pedrazzi recita: «La Dc sa attendere il ritorno di Moro con fermezza e pazienza, e saprebbe decidere con saggezza e coraggio ciò che andrebbe deciso ove le Br si assumessero la responsabilità di liquidare, dopo la scorta, anche il severo e grande prigioniero». L’articolo suscita critiche all’interno della Dc che dirama una nota in cui si fa carico solo all’autore delle cose scritte. Su «il manifesto», per Rossana Rossanda l’ossessione del comunicato brigatista contro la Dc può impressionare una base inquieta e delusa dalla perdita di iniziativa del Pci. Nelle parole delle Br legge una certa aria di famiglia della vecchia sinistra anni Cinquanta. Il senatore comunista Macaluso, intervistato da «la Repubblica», respinge ogni rapporto di filiazione tra la sinistra storica e le Br. Afferma che è inaccettabile qualsiasi parallelo storico tra le iniziative fatte dai comunisti a loro tempo (l’opposizione a Tambroni prima e al centro-sinistra dopo, la critica agli omissis apposti da Moro sul caso De Lorenzo) e le imputazioni brigatiste al prigioniero Moro. Su «La Stampa» Arrigo Levi lancia alcune proposte per l’emergenza. La più significativa è quella di eleggere Aldo Moro capo dello Stato, invitando alle dimissioni Leone. Nell’evidente vuoto istituzionale, andrebbe costituito un «comitato di consulenza» composto da Fanfani, Ingrao e Saragat, l’ex presidente della Repubblica. Una telefonata anonima all’Ucigos segnala cinque persone come appartenenti alle Br e dà indicazioni sui loro nomi, suoi luoghi di lavoro e sui posti che frequentano. Tra i cinque, Teodoro Spadaccini, in seguito arrestato come appartenente alle Br, è già conosciuto alla polizia. Tra la segnalazione e la trasmissione alla questura passerà più di un mese. Seguendo Spadaccini la polizia risalirà al brigatista Enrico Triaca e alla tipografia di via Foà. Al Viminale il Comitato tecnico-operativo mette a punto il piano per un’operazione importante. Il questore informa i presenti, a questo proposito, sull’area dell’Autonomia a Roma. Aldo Moro spedisce la sua prima «lettera politica».
29 marzo
Sui giornali la proposta di Levi di eleggere Moro capo dello Stato viene interpretata come un’iniziativa della destra democristiana per mettere in crisi gli equilibri all’interno del partito e nel rapporto con la nuova maggioranza. «l’Unità» pubblica un commento critico alla proposta, considerandola una «rischiosa operazione istituzionale» e puntando invece sul senso di responsabilità e sulla fermezza nell’isolare l’eversione. Montanelli, sul «Giornale Nuovo», invita la Dc a considerare Moro ormai perduto, riesca o no a salvarsi. Si apre a Torino il 41° Congresso socialista. Non è in discussione la leadership di Craxi, rafforzata dal patto con Signorile, quanto la collocazione che il partito intende assumere riguardo alla maggioranza governativa. È anche il banco di prova della nuova classe dirigente socialista, quella generazione di quarantenni che si è stretta attorno a Craxi. Ma il discorso introduttivo del segretario è atteso anche per i suoi imprescindibili riferimenti al sequestro Moro. Craxi parla di unità nazionale di fronte alla crisi, ma nello stesso tempo rilancia una politica dell’alternativa, un ruolo non subalterno dei socialisti, sia nei confronti dei democristiani che dei comunisti. Quanto al terrorismo, la relazione introduttiva sembra negare ogni filiazione tra lotta di classe e violenza, anzi le contrappone, quasi lasciando intravedere trame internazionali e burattinai. Riunione del Comitato Interministeriale per la Sicurezza, in cui si prende atto dell’inconsistenza delle indagini e delle difficoltà di coordinamento. Si discutono così i criteri per la riorganizzazione dei Servizi di Sicurezza. Si decide anche che il collegamento tra iniziativa politica e operatività venga tenuto da un membro del governo. Non era esattamente quanto richiesto dai tecnici del Comitato tecnico. Zaccagnini legge la sua relazione ai quadri intermedi della Dc riuniti a palazzo Sturzo a Roma. La tonalità dell’incontro, nonostante l’evidente disagio per l’assenza di Moro e per il clima di guerra che si respira anche durante la giornata, sembra improntarsi all’orgoglio di appartenenza. Il partito si sta preparando alle prossime elezioni amministrative. Le relazioni politiche sono segnate da dichiarazioni di fedeltà alla maggioranza costruita. Zaccagnini sarà colto da malore mentre legge la sua. «La Dc – si dice – non muterà la sua linea». L’intervento di Galloni, dal tavolo della presidenza, chiama il Pci a un ruolo di primo piano nella lotta al terrorismo «viste le comuni matrici ideologiche marxiste e leniniste». I sei portuali di Genova, che il Pci ha dichiarato di avere espulso per un volantino intitolato Né con lo Stato né con le Br, convocano una conferenza-stampa in cui precisano la loro posizione. L’espulsione risale a tempo prima e riguarda questioni sindacali attinenti la ristrutturazione del porto e le iniziative di lotta da prendere. Si considerano sottoposti a linciaggio e dichiarano di non sentirsi assolutamente conniventi con il terrorismo, ma neanche di accettare la tesi di «ingoiare per ora i sacrifici e poi si vedrà». Su «la Repubblica» un lungo articolo di Umberto Eco prova ad addentrarsi nel testo del comunicato n. 2 delle Br. Eco trova inutile una reazione basata sulle definizioni di «follia, delirio, farneticazioni». Le radici teoriche del documento stanno in una certa cultura euro-pea e americana del ’68 e anche la definizione di «Stato imperialista delle multinazionali» non gli suona poi così demenziale. Ma se è pregnante l’analisi dei sistemi di potere, a essi le Br rispondono con un romanzo d’appendice, con giustizieri e vendicatori. Alla riapertura del processo di Torino, i brigatisti detenuti leggono un comunicato in cui ribadiscono la loro estraneità al dibattimento in aula. Fuori da quell’aula un altro processo si starebbe compiendo in tutto il paese. La legge ora – dicono – è fatta dalla rivoluzione proletaria. Il giudice Infelisi consegna ai tecnici di Cinecittà la foto di Moro che accompagnava il comunicato n. 1, per verificarne l’autenticità e le possibili manipolazioni. Nicola Rana, da anni segretario particolare di Moro, riceve, nello studio di via Savoia del presidente democristiano, una telefonata delle Br, che gli indica dove trovare una busta. Rana la recupera e si reca da Eleonora Moro. La busta contiene tre lettere di Moro. La prima, indirizzata a Rana, in cui lo prega di preservare la segretezza e la sicurezza dello studio di via Savoia come canale di comunicazione. La seconda, alla moglie. La terza, la più lunga, indirizzata a Cossiga, a cui Rana la consegna nel primo pomeriggio. Moro deve avervi ragionato su durante la Settimana Santa. Ha letto ritagli di giornali con le dichiarazioni dei partiti, di esponenti del governo, dei sindacati. Suppone che si sia aperta una caccia all’uomo per rintracciare il luogo dov’è tenuto prigioniero, ma non crede che questa sia la strada per la quale poter tornare libero. Vuole far rendere conto gli altri della condizione a cui è sottoposto, il «dominio», il «processo». «Siamo tutti noi a essere chiamati in causa», scrive Moro. Lo si deve considerare un prigioniero politico e trovare il modo di tirarlo fuori da lì. Fa riferimento a precedenti comportamenti di Stato come il caso Lorenz e gli scambi di spie tra paesi ostili. Indica nella Santa Sede un possibile interlocutore, un mediatore attivo.
Cossiga riceve la lettera convinto – come gli scrive Moro – che abbia un carattere privato. Da lì a poco, invece, le Br faranno rinvenire in quattro città copie della lettera e il comunicato n. 3. La scelta di rendere pubblico quanto a Moro era stato garantito come privato sarà motivata dicendo: «Niente sarà nascosto al popolo». Questa decisione non fu presa senza obiezioni interne. Il comunicato, che si rivolge al Movimento rivoluzionario, proclama che renderà noti i risultati dell’interrogatorio di Moro, a cui il prigioniero – si dice – sta collaborando. A sera finalmente il Comitato tecnico-operativo sarà informato dell’ultimo comunicato brigatista e delle lettere di Moro, compresa quella al ministro degli Interni di cui nessuno era al corrente. Cossiga, intanto, si consulta con Andreotti per decidere insieme l’atteggiamento da assumere. Il gruppo dei più stretti collaboratori di Moro, Rana, Freato e Guerzoni, prepara un articolo per il quotidiano «Il Popolo», in cui si mostra una certa disponibilità ad ascoltare i suggerimenti contenuti nella lettera del presidente democristiano. Ma la pubblicazione dell’articolo viene bloccata dai vertici del partito. Immediatamente dopo aver ricevuto la lettera del marito, Eleonora Moro, seguendone le indicazioni, si è messa in contatto con il Vaticano per sollecitarne la mediazione.
30 marzo
Sui quotidiani viene dato molto spazio alla notizia della lettera di Moro a Cossiga, ma vengono espressi numerosi dubbi sulla sua autenticità: il messaggio viene giudicato «chiaramente estorto sotto tortura e sotto minaccia». La proposta di scambio viene quindi valutata inattendibile. Si riunisce il Consiglio dei ministri. L’incontro ha un carattere assolutamente formale e di routine, quasi a espletare la necessità di mostrare il funzionamento della macchina governativa. In realtà serve anche a garantire unanimità di consensi dentro il governo. Andreotti rinvia ogni valutazione politica al Comitato Interministeriale per la Sicurezza. Alla consueta riunione del Comitato tecnico-operativo i vari responsabili delle forze di polizia esprimono risentimento per le valutazioni critiche avanzate da più parti sul loro operato. Si decide di ridurre le riunioni del Comitato a un paio settimanali. Ancora prese di posizione sulla proposta di A. Levi per la costruzione di un «comitato di consulenza» che subentri alle inevitabili dimissioni di Leone. È Fanfani stesso, di cui si adombrava la paternità della proposta, a considerare, in una lettera alla «Repubblica», impraticabile l’idea di Levi dal punto di vista costituzionale. Inoltre, la giudica politicamente una lacerazione, proprio in un momento in cui l’emergenza richiede unità. La Malfa invece considera inevitabili le dimissioni di Leone e urgente la necessità di sostituirlo. La segreteria democristiana e quella comunista emettono due comunicati in cui tagliano corto sull’argomento. Il presidente Leone si difende, dichiarando di non subire condizionamenti di alcun tipo e che la sfida al terrorismo si vince con pacata freddezza. La sensazione è che in qualche modo si stia esercitando una pressione preventiva nei suoi confronti: il suo atteggiamento, forse, non è perfettamente in riga con le posizioni fin qui espresse dal governo. Sul «Popolo» alla lettera di Moro a Cossiga segue una breve nota, che il direttore ha stabilito d’accordo con la segreteria Dc, in cui si dice che «ogni affrettata valutazione va evitata». In mattinata, nella sede di piazza del Gesù si incontrano gli uomini della segreteria con il presidente del Consiglio e il ministro degli Interni. A sera, alla Camilluccia, Andreotti, Cossiga, Zaccagnini, Fanfani, Rumor, Colombo, Piccoli, Galloni, Donat Cattin, Forlani, De Mita, Taviani, Gaspari, Salvi, Bartolomei, Pisanu, dopo scambi di pareri con gli altri partiti, mettono a punto la linea democristiana. Si stabilisce di considerare la ragione di Stato come punto di riferimento nella fermezza, anche rispetto alla Santa Sede. Il contenuto delle lettere e di altri scritti di Aldo Moro saranno considerati, da ora in poi, non ascrivibili a lui. Grande importanza viene data alla collaborazione con la stampa. Pesano sulle decisioni il rapporto con i comunisti e la maggioranza, e l’inevitabile crisi di governo che si aprirebbe adottando un’altra posizione. Inoltre, alla successiva scadenza delle elezioni amministrative, la Dc non intende presentarsi come il «partito dello scambio». Ma dev’essere dura per chi con Moro ha un rapporto di vera amicizia personale, come Zaccagnini. Si decide anche di ottemperare, in parte, alla richiesta di Moro di lasciare lo studio di via Savoia come possibile canale.
31 marzo
«Nessuna trattativa, nessun cedimento al ricatto». È questo il senso consonante di due articoli che escono, rispettivamente, sul «Popolo» e su «l’Unità» a definire la posizione democristiana e comunista. Entrambe le posizioni disconoscono l’autenticità delle lettere di Moro, attribuendole allo stato di costrizione che subisce. Uno stuolo di criptologi, grafologi, farmacologi analizzano le parole di Moro per dimostrare come sia sottoposto a stupefacenti o a tortura. Anche le segreterie degli altri partiti sono d’accordo con la posizione democristiana e comunista. Ma si segnalano insofferenze rispetto la sospensione dei lavori del Parlamento; inoltre, una parte della destra democristiana, che non ha mai amato molto il compromesso storico, non si nasconde i pericoli di questa consonanza sempre più stretta tra la Dc e il Pci. Al Congresso socialista di Torino quasi tutti gli interventi concordano con la relazione del segretario Craxi. Quello che sembra maggiormente preoccupare i socialisti è la coesione del partito in un sostanziale accordo tra le correnti. La politica di unità nazionale viene ribadita come l’unica possibile e praticabile. È Giacomo Mancini a esplicitare quanto è sotteso: «La lettera di Aldo Moro sta al centro del nostro dibattito sulla democrazia e sulla repubblica». Dopo un lungo silenzio, la Santa Sede rilascia nel pomeriggio una breve dichiarazione in cui si dice pronta a «interporre la propria opera per la soluzione del dolorosissimo caso dell’on. Moro». Nello stesso tempo considera prematuro ogni passo finché gli elementi in gioco non siano chiari. I quotidiani ricordano la mediazione di Paolo VI nel caso Sossi e l’offerta della sua persona come ostaggio durante le trattative a Mogadiscio per il caso Schleyer. Il procuratore capo di Roma, De Matteo, avoca a sé l’inchiesta su via Fani, esautorando il sostituto procuratore Infelisi. Nel frattempo ha partecipato a una riunione con magistrati di Milano che hanno condotto inchieste sulle Br, e ha sollecitato un incontro anche con altri colleghi di Torino, in particolare Giancarlo Caselli. Intanto circolano voci su una lista di «fiancheggiatori» delle Br, preparata dalla questura di Roma. Ci si interroga sul senso di questa operazione. Le prime polemiche riguardano l’aggiornamento dei dati di questa lista, di cui si dice contenga soprattutto nomi legati alla storia di Potere operaio, scioltosi nel 1973. Ipotesi investigative trovano ampio spazio sui quotidiani: alcune puntano a individuare i «cervelli» del terrorismo all’estero, più probabilmente in Germania, altre verso Genova. L’agenzia di stampa sovietica «Novosti» accusa la Cia di muovere le fila dei terroristi.
Volantini brigatisti vengono ritrovati nella notte in quattro quartieri di Roma.
1 aprile
L’iniziativa della Santa Sede, seppur espressa con estrema cautela, provoca perplessità e timori nel Pci, che ne suppone un’influenza e una suggestione verso i democristiani. Ma gli stessi dirigenti della Dc ne sono rimasti sorpresi. Tra l’altro, si pensa che la Santa Sede sarebbe certamente in grado – e lo stesso Moro potrebbe dare indicazioni in tal senso – di attivare dei canali sotterranei di iniziativa. Così, Bodrato e Salvi, due tra i dirigenti democristiani più vicini alla politica di Moro, si incontrano con monsignor Caprio; a lui esprimono la difficoltà in cui si troverebbe il partito se la Santa Sede assumesse iniziative in contrasto con la linea già assunta. D’altro canto, non possono certo impedire l’esercizio pastorale del Papa e farlo tacere. Si tiene a Francoforte una seduta del Tribunale Russell, organismo che include personalità di fama internazionale che vigila democraticamente sulle involuzioni autoritarie degli Stati. Al centro dell’attenzione critica c’è il complesso di norme approvate e i comportamenti istituzionali (come il ricorso all’esercito per motivi di ordine pubblico) che stanno accadendo in Italia. Ripetuti sono gli accostamenti a quanto accaduto nella Repubblica federale tedesca. Viene proiettato, in anteprima, Herbst in Deutschland, Germania in autunno, film di alcuni dei più noti e bravi registi tedeschi, che descrive la realtà dell’autunno 1977, dopo il sequestro Schleyer. Ronchey, sul «Corriere della Sera», critica: la teoria del complotto, che addebita soprattutto ai comunisti; Mancini, che tira in ballo gli americani, e De Carolis, che invece cita il Kgb. Eppure – dice – il reclutamento della guerriglia è avvenuto da un decennio sotto gli occhi di tutti. In verità – continua – i comunisti sono in ritardo sull’analisi delle Br, considerate fino al 1977 parte delle «trame nere». Anche Martinazzoli, in un convegno democristiano a Brescia, pensa che le Br «sono» le Br, e le loro origini stanno in un mancato e approfondito dibattito della sinistra storica.
2 aprile
Paolo VI si affaccia, a mezzogiorno, a piazza San Pietro e, pur sottolineando l’assenza di «alcun particolare indizio sullo stato di fatto», rivolge un appello ai rapitori di Moro perché lo rilascino. Non c’è nessun cenno a porsi come interlocutore, ma l’aver speso pubblicamente la propria persona indica un probabile travaglio interiore del Papa. Galloni e Cossiga avevano preso contatto, la sera precedente, con il Vaticano. Un gruppo di amici bolognesi, stimati professori universitari legati da parentele incrociate, si riunisce in una villa di campagna e per gioco dà inizio a una seduta medianica per la ricerca di Moro. Viene fuori, tra le altre, la parola «Gradoli» che, sola, incuriosisce i presenti. Sarà il prof. Romano Prodi, con numerosi conoscenti a Roma, a incaricarsi di trasmettere questa curiosità. Si conclude il Congresso socialista. Due i passaggi politici importanti della relazione conclusiva di Craxi: conferma del governo di unità nazionale, purché questo non significhi una continuità dell’egemonia democristiana, e un pregnante riferimento al caso Moro, in cui il segretario socialista sembra prendere le distanze dalle posizioni più intransigenti. «È in gioco una vita umana – dice
– e non dovrebbe essere lasciato cadere nessun margine ragionevole di trattativa». Durante il Congresso, Craxi si è incontrato con Guiso, l’avvocato di idee socialiste presente al processo di Torino contro i brigatisti, per uno scambio di opinioni. A Milano, la Cgil, dopo le polemiche con gli altri sindacati, è impegnato nella promozione di assemblee nelle fabbriche sulla questione del terrorismo. Interverrà Luciano Lama. Il «Corriere della Sera» intervista i due segretari provinciali Cgil e Cisl, De Carlini e Colombo. Entrambi si mostrano convinti del fatto che il terrorismo non nasce in fabbrica ma è importato da frange della piccola borghesia. Divergono invece sul ruolo del sindacato nella lotta al terrorismo. Si chiedono come non lasciare spazio alla disillusione operaia quando, dopo un grande ciclo di lotte, i cambiamenti tardano ad arrivare. Esce su «l’Unità» un articolo di Aldo Tortorella sul ruolo degli intellettuali, in cui scrive che «l’equidistanza tra Stato democratico costituzionale e Br è una posizione nefasta». Tortorella considera al confine con l’aggressione propagandistica i commenti come quello di Ronchey, secondo cui il Pci avrebbe allevato l’estremismo di sinistra. «Erano altri che strizzavano l’occhio all’estremismo» scrive. E pur senza voler attribuire tutto a complotti – prosegue – non si può evitare di considerare che Moro è stato rapito il giorno in cui nasceva in Italia una nuova maggioranza con i comunisti.
3 aprile
L’alba del giorno vede all’opera una spettacolare operazione di polizia che si conclude al tramonto. Roma viene setacciata sulla base di vecchi elenchi forniti dalla questura, alla ricerca di «fiancheggiatori» delle Br. Circa 250 perquisizioni domiciliari, 122 fermati, 40 arrestati sono i dati dell’operazione congiunta di carabinieri, polizia e guardia di finanza. Per tutti gli arrestati scatterà l’imputazione di «associazione sovversiva». «Lotta Continua» titolerà Non cercano più Moro, cercano tutti gli altri. Tra i fermati, gente vicina al «manifesto», Lotta continua, PdUp, Democrazia Proletaria, autonomi. Ci sono persino appartenenti al Pci, e «l’Unità» riferirà di «indiscriminata operazione», di casi di prevaricazione. E «vibrante» sarà la preoccupata risposta dei comunisti a questa iniziativa. Due o tre dei fermati hanno effettivamente a che fare con le Br. Nel pomeriggio, all’Università circondata da blindati, assemblea unitaria di movimento «contro lo Stato che ci vuole clandestini» e convocazione di un prossimo incontro per indire una manifestazione cittadina. I segretari dei partiti di maggioranza si riuniscono per la seconda volta: la prima fu immediatamente dopo il sequestro e registrò un fronte compatto per la fermezza. Adesso, in previsione del dibattito parlamentare dell’indomani, sembra necessario verificare la maggioranza. Cossiga relaziona sullo stato delle indagini. È minuzioso e dettagliato ma, evidentemente, non ha alcun conforto di risultati. Paventa la possibilità di altri attentati ad alto livello. La riunione viene introdotta dal presidente del Consiglio che fissa subito alcuni punti: non ascrivibilità a Moro delle sue lettere; dare una risposta politica di fermezza senza che ci sia l’impressione di una trattativa sottobanco; ribadire al Vaticano la posizione di intransigenza dello Stato. Berlinguer insiste sulla necessità che il governo esprima con estrema chiarezza il rifiuto di ogni trattativa; in caso contrario teme le reazioni delle forze dell’ordine. Zaccagnini attenua i toni: è d’accordo sulla fermezza, ma non esclude ogni azione legale volta a salvare Moro. Biasini, per i repubblicani, e Romita, per i socialdemocratici, si schierano decisamente con il governo per la fermezza, considerandola una posizione ormai vincolante. È Craxi, reduce dal Congresso di partito, a discordare dagli altri. Prima dell’incontro, ha rilasciato una breve intervista al giornale radio, in cui dichiara la necessità di esplorare tutte le strade per liberare il presidente democristiano. Nella riunione di maggioranza insiste sulla necessità di fare quanto realisticamente possibile per lo Stato per salvare Moro, evitando di affrontare le cose come questioni di principio. Andreotti chiude spicciamente la riunione. Ci si accorda perché il dibattito dell’indomani sia breve e soprattutto eviti qualsiasi votazione. La riunione si conclude con la decisione di rilasciare un breve comunicato in cui si esprime la «concorde valutazione del governo». Al Viminale si riunisce il Comitato tecnico-operativo per valutare la «retata» di quel giorno. Oltre Roma, sono interessate anche Genova, La Spezia e Pescara. Gli interventi, che registrano soddisfazione, vanno nel senso di una intensificazione di operazioni di questo tipo. A favore, anche una dichiarazione televisiva di «guerra psicologica» contro la sinistra extraparlamentare, forse iniziativa dei «cervelli» di Cossiga. Da questo momento non ci sarà più documentazione relativa agli incontri del Comitato, che pure continuano. A Torino, si tiene alla Provincia un’assemblea convocata dai sindacati sul terrorismo. In un documento di numerosi delegati si manifesta preoccupazione per le leggi speciali e ci si interroga sulla «chiamata» a difendere questo Stato. Si crea una spaccatura tra i presenti: la delegazione Dc esce, considerando quel documento una «copertura alle Br», e un successivo comunicato della federazione Cgil-Cisl-Uil parla di «ambiguità e posizioni inaccettabili». Alla riapertura del processo di Torino, i detenuti Br, tra irrisioni alla Corte e al Pubblico ministero, denunciano le condizioni di rigore e di isolamento nei carceri, contrapponendo il rispetto in cui tengono i «loro» prigionieri. Sembra una notazione di timore per le proprie vite e la riaffermazione di avere un ostaggio nelle loro mani. Ma non c’è documento, nessuna presa di posizione con riferimento specifico a Moro. Solo interventi personali. Tra questi, quello di Semeria, uno dei più importanti tra i brigatisti «storici», che non parla di vendetta o di «giustizia» ma di un atto di guerra contro una classe. Quindi, «sia il processo che la detenzione non hanno bisogno di eliminare un’individualità». Sembra uno spiraglio, ma nessuno ne prende nota. Aldo Moro spedisce la sua lettera.
4 aprile
Il «Corriere della Sera» pubblica, in prima pagina, un dibattito tra Rossanda, Macaluso e Romeo sui rapporti tra sinistra, estremismo e terrorismo. Macaluso storicizza la durezza dei giudizi contro la Dc negli anni della persecuzione contro i comunisti e della guerra fredda Usa-Urss. Rossanda colloca le matrici del terrorismo in quella parte di nuova sinistra più vicina all’anarchismo che al marxismo. Sostiene la necessità di cercarne le origini nella crisi di credibilità del sistema piuttosto che in problemi di cultura. Romeo nega la storicità di un rapporto tra Pci e violenza e lo colloca dopo il ’68, quando, in un clima d’odio, è cresciuta una degenerazione estremista coperta dai comunisti. L’onorevole Granelli, della direzione democristiana, invia alla «Repubblica» una lettera in cui respinge alcuni equivoci generati da una precedente intervista al giornale radio. Scrive che lo Stato non deve cedere al ricatto terrorista, ma che la salvezza di una vita non esclude contatti a scopo esclusivamente umanitario. La Chiesa non si è mai sottratta in casi analoghi, ma sarebbe improprio parlare di negoziato della Santa Sede o di pressioni in tal senso da parte della Dc. Inizia, nel pomeriggio, il dibattito alla Camera. In mattinata, nella riunione dei capigruppo, si è concordato di fissare dei limiti di tempo per le interrogazioni. È Andreotti che espone le linee del governo. Ribadisce che alle «insidiose difficoltà del momento si risponde respingendo nel modo più fermo ogni accettazione di ricatto» e che «non si può patteggiare con gente che ha le mani grondanti di sangue». Chiede il concorso di tutti e in particolare degli intellettuali. Si appella ai giudici – e il riferimento sembra esplicito a quanto accade a Torino – perché si smettano le «defatiganti cavillosità» e siano brevi i tempi dei processi. Ragguaglia sulle lettere inviate da Moro e in particolare su quella a Cossiga e la dichiara – con il conforto degli esperti – «moralmente a lui non ascrivibile». Dopo di lui si ascoltano gli interventi di Natta, per i comunisti, e di Piccoli, per i democristiani. Natta proclama il dovere del parlamento e delle forze democratiche di provvedere alla difesa più ferma e rigorosa dei princìpi, delle leggi e degli istituti dello Stato democratico. Piccoli ripete il rifiuto di avviare trattative, una scelta che la Dc avrebbe fatto anche se fosse stato un parti-to d’opposizione. È a questo punto che viene comunicato a Cossiga, a Zaccagnini, ad Andreotti, a Berlinguer e ad altri che è giunta un’altra lettera di Moro. Qualcuno esce dall’aula, legge il testo, rientra, si allontana per una breve riunione con i più stretti collaboratori, fa una dichiarazione sulla «lettera chiaramente estorta» e rientra in aula. Il dibattito va stancamente e formalmente avanti, in un clima fortemente emotivo. Solo Gorla, per i demoproletari, Pinto di Lotta continua e Castellina del Manifesto protestano per l’elusività e la riduttività del dibattito. Pinto e Castellina si esprimono chiaramente perché sia fatto ogni tentativo per salvare la vita di Moro. Le Br hanno telefonato, nel pomeriggio, a Milano, Genova, Torino e Roma, alle redazioni di alcuni giornali per avvertire di aver lasciato dei plichi. Dentro, ci sono il comunicato n. 4 delle Br, la Risoluzione strategica del febbraio ’78 e una lettera di Moro. È indirizzata a Zaccagnini, pregandolo di farla leggere agli altri capi della Dc. È al suo partito che Moro si rivolge, pur sentendosi «un po’ abbandonato», affinché si muova, «qualsiasi cosa dicano gli altri». Non vuol parlare del passato – accenna appena all’insufficienza della scorta «per ragioni amministrative». Nell’immediato
– «e il tempo corre veloce» – prospetta l’unica soluzione possibile, la liberazione dei prigionieri «di ambo le parti». D’altronde, idee simili sostiene di averle già espresse a Gui e Taviani al tempo del sequestro Sossi. Tiene a precisare di essere «in piena lucidità». Il comunicato delle Br, dopo aver affermato che il processo a Moro è il processo a trent’anni di regime democristiano, sottolinea che «la posizione sullo scambio non è la nostra». La liberazione di tutti i prigionieri comunisti verrà certamente perseguita, ma adesso ogni allusione a trattative segrete viene denunciata come manovra propagandistica e controguerriglia psicologica. «Il processo ad Aldo Moro andrà regolarmente avanti». Nella Risoluzione strategica vengono analizzati il sistema capitalistico multinazionale, il socialimperialismo dell’Urss, la politica di controrivoluzione delegata in Italia alla Dc. Si afferma la necessità di costruire il partito armato, di cui le Br si considerano un’avanguardia e di «sfondare la barriera del Sud». Craxi si incontra con Freato, che, anche a nome della famiglia Moro, gli prospetta la necessità di insistere su una linea opposta a quella della fermezza. Successivamente, il segretario socialista vede l’avvocato Guiso e con lui discute delle possibili strade per rendere credibile una trattattiva che abbia tutti i crismi della legalità e che non provochi un eccessivo conflitto con le altre forze politiche. In nottata, a piazza del Gesù, riunione del vertice democristiano. Zaccagnini è il più provato e la direzione Dc sembra riunirsi attorno a lui per impedire ogni sgretolamento della linea adottata.
5 aprile
I quotidiani riportano la notizia della lettera di Moro a Zaccagnini definendola un «inumano documento, non credibile e scritto dal-l’inferno». Anche «l’Osservatore Romano» fa proprio questo «unanime giudizio» e parla di metodica distruzione della coscienza. Uno studio della Rand Corporation, organismo atlantico di supporto teorico nella lotta al terrorismo, accenna a una sorta di «infantilizzazione». Di sostegno e cooperazione internazionale parla Forlani, ministro degli Esteri, in una riunione a Lussemburgo dei ministri europei. Continuano gli interrogatori degli arrestati durante la «retata» del 3 aprile, mentre si moltiplicano le proteste e le attestazioni di estraneità alle indagini. Si parla di nuove liste, di trecento ricercati, di duecento clandestini individuati. Alla Fiat Lingotto due assemblee sul terrorismo: duemila operai alle Presse, cinquemila alle Carrozzerie. In quest’ultima, l’egemonia del Pci è forte e l’assemblea assume il carattere del comizio a cui sono invitati – tra qualche fischio – anche i democristiani. Viene autorizzata la manifestazione nazionale contro la legge sull’aborto indetta dai collettivi femministi per sabato 8 aprile a Roma. Il timore di un nuovo referendum – a cui puntano i radicali e che per «l’Unità» riaprirebbe la lacerazione del paese – aleggia sul dibattito parlamentare. La Dc si colloca di nuovo su una posizione intransigente, in un tentativo di recupero del rapporto tra base e vertice, mondo cattolico e gerarchia ecclesiastica. Anche la legge Reale, che regola l’ordine pubblico, potrebbe essere sottoposta a referendum. Per evitarlo, le commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato hanno proposto modifiche che dovrebbero essere approvate entro la settimana successiva.
6 aprile
I postini delle Br sono riusciti a far arrivare alla famiglia alcuni fogli scritti da Moro in cui, oltre a parole d’affetto, sono tracciate delle linee di iniziativa. Moro comincia a rendersi conto dell’irrigidimento delle posizioni. Cerca spazi di manovra. Impegna la moglie a contattare rapidamente persone e partiti: «…i socialisti hanno avuto qualche debole cenno a motivi umanitari… i comunisti sono stati durissimi… il Vaticano va ancora sollecitato». È un estremo tentativo, dice. Eleonora Moro decide di rispondere al marito attraverso un quotidiano, forse il modo più sicuro per informarlo e per iniziare pubblicamente la sua battaglia per salvarlo. Anche «l’Avanti» ritiene impossibile ascrivere a Moro le lettere e mostra scetticismo rispetto alla trattativa. Dentro il Psi evidentemente non tutto è stato de-legato al segretario. Miriam Mafai su «la Repubblica» analizza le reazioni operaie al terrorismo in una città come Genova, che definisce «laboratorio per le Br». Dopo aver registrato le risposte stereotipate di dirigenti provinciali e sindacali di sinistra, racconta di un malessere diffuso tra gli operai e soprattutto tra i portuali, ma anche di un’estesa indifferenza borghese. Forse non c’è simpatia per le Br, ma neanche tanto affetto per lo Stato e la Dc. E il Pci, che qui gestisce la ristrutturazione, si trova di fronte una consistente ostilità. Escono 30 dei 41 fermati lunedì 3 aprile. Le perquisizioni si spostano a Pavia e Milano, mentre vengono effettuati arresti in tutta Italia. Proprio contro gli arresti indiscriminati l’Autonomia romana decide di scendere in piazza per l’indomani. Una buona parte del movimento è d’accordo, un’altra decide di convocarsi in un cinema per domenica. Ma serpeggia una sensazione di «chiusura» e difficoltà di fronte alla militarizzazione della città. Puntualmente, infatti, è arrivato dalla questura il divieto a manifestare. «l’Unità» definisce la decisione del movimento di manifestare come un aperto fiancheggiamento delle Br. Giancarlo Quaranta, leader del movimento Febbraio ’74, – un’organizzazione della sinistra giovanile cattolica che si propone di costruire «dal basso» un rapporto con i comunisti e in cui milita Giovanni, il figlio di Moro – incontra Enrico Berlinguer a Botteghe Oscure. Gli chiede di essere meno intransigente verso un’ipotesi di trattativa, ma il segretario comunista è inflessibile. «Non trattare è il modo migliore per salvare la vita di Moro», dirà. In serata, Berlinguer rilascia un’intervista televisiva. Esprime una valutazione del terrorismo come qualcosa che «giova ai nemici della democrazia» e che si contrappone al «nuovo quadro politico, cioè la nuova maggioranza parlamentare che sostiene il governo». Nello stesso tempo sembra preoccupato di controllare democraticamente l’eccezionalità e di continuare l’opera di risanamento e rinnovamento dello Stato. «La politica dell’emergenza e la strategia del compromesso storico – afferma – sono due cose diverse, ma non mi pare che possano contraddirsi». Il giorno precedente, il 5 aprile, sulla base della curiosa notizia della seduta medianica di Bologna viene ordinato di perquisire la località Gradoli, in provincia di Viterbo. Oggi, viene effettuato un rastrellamento della zona. Nessun riscontro. Non viene in mente che «Gradoli» possa essere un’indicazione stradale e non geografica. Moro scrive il suo testamento. Sul quotidiano «Il Giorno», a cui spesso collaborava il presidente democristiano, viene pubblicata una breve lettera di Eleonora Moro al marito. Non ha molti ragguagli da offrirgli. «Noi purtroppo – dice – non abbiamo alcun segno che conforti la nostra speranza del tuo ritorno». Il quadro delle posizioni, tra suoi incontri diretti e quelli di intimi amici con i democristiani, i comunisti e persino il Vaticano, le si è ormai delineato nettamente. Ma non dispera. Non può farlo. Moro legge quasi subito le parole della moglie e le risponde con prontezza. Scrive con delicatezza, tra parole d’amore e compiti da svolgere. Suggerisce di partire dai collaboratori più stretti, dagli amici più fidati per avere un primo schieramento. Bisogna giocare la forza e la politica. «Ci vuole del pubblico oltre che del privato». Minacciare una dissociazione politica, dice, «è l’unica cosa che i nostri capi temono». Insiste per contattare la Santa Sede, nonostante abbia letto un articolo durissimo di don Levi sull’«Osservatore Romano» contro il ricatto. Lo scambio di prigionieri gli sembra l’unica via praticabile, a cui il «peggior rigore comunista» contravviene clamorosamente. Dei «capi» democristiani non vuol quasi parlare. «Il mio sangue ricadrà su di loro» dice. Scritta la lettera, la affida ai brigatisti che lo detengono. Durissima intervista di Luciano Lama a «la Repubblica»: «Quelli che abbracciano la teoria “né con lo Stato né con le Br” non possono far parte della Federazione sindacale unitaria; o se ne vanno o debbono essere messi fuori». E a proposito di una proposta di Benvenuto, Lama dice: «Ha ragione. Coloro i quali respingono ogni iniziativa di risanamento economico finiscono per alimentare il combustibile sociale delle Br». Il segretario della Uil aveva parlato di un impegno per salvare l’Alfa Romeo, consentendo una libera ripresa della mobilità e degli straordinari. Al Senato vengono discusse le norme antiterrorismo approvate per decreto, che dovrà essere ratificato dai due rami del Parlamento entro sessanta giorni. I socialisti sembrano notevolmente critici e chiedono la «temporaneità» del provvedimento. Trenta perquisizioni vengono effettuate a Milano. Arresti a Napoli.
7 aprile
Il giudice Infelisi ha aperto un’inchiesta sulle infiltrazioni Br tra i dipendenti Sip dove, tra l’altro, sono state trovate decine di copie del comunicato n. 3. Ma volantini sono ritrovati dappertutto e alla Digos continuano ad accumulare pacchi di questo materiale. Il sostituto procuratore della Repubblica di Milano, Pomarici, dice che per avere informazioni si potrebbe usare il «siero della verità» su Curcio. Le Br feriscono a Genova Felice Schiavetti, presidente degli industriali della città. Colpito da cinque proiettili alle gambe, Schiavetti è stato prontamente ricoverato all’Ospedale San Martino. «Hanno colpito il ruolo, non la persona» dice Schiavetti ai primi soccorritori. La manifestazione degli autonomi, che «l’Unità» definisce «pugno di teppisti e delinquenti comuni», praticamente non si tiene. Si risolve in iniziative decentrate che raccolgono solo qualche centinaio di militanti e in cui si registrano incidenti. Lo schieramento preventivo delle forze di polizia è enorme e terrorizzante. Da questo clima si distanzia Zincone che sul «Corriere della Sera» del giorno dopo cercherà di capire le differenze tra Autonomia e Br, raccogliendo interviste, riportando stralci di una trasmissione di Radio Onda Rossa e brani di un editoriale della rivista «I Volsci» dal titolo No alla clandestinità, né per amore né per forza. L’articolo conclude: «Sono due mondi opposti. Trattare gli autonomi alla stregua di criminali potrebbe significare, in questo momento, allargare l’area di reclutamento delle Br». Consiglio Europeo a Copenhagen, a cui Andreotti partecipa per l’Italia. Principale argomento è quello relativo alla possibilità di una sorta di Fondo monetario europeo – proposto da Schmidt e positivamente valutato da Giscard – che tenga yen e dollaro come monete fluttuanti. Tutti sembrano preoccupati di non caratterizzare questa proposta come un’iniziativa contro gli Stati Uniti. Ovviamente, parole di solidarietà per la sorte di Aldo Moro sono espresse da tutti al presidente del Consiglio italiano. Taviani, a cui Moro aveva fatto riferimento nella sua lettera, smentisce di aver mai discusso con il presidente democristiano del caso Sossi e della necessità di essere flessibili di fronte a vicende del genere. Gui invece conferma le parole di Moro.
8 aprile
«Il Popolo» pubblica la lettera di Eleonora Moro al marito uscita su «Il Giorno», con un commento in cui si dice che «a parte la rigorosa salvaguardia delle prerogative dello Stato repubblicano, nessuna possibilità di restituire l’on. Moro innanzitutto ai suoi cari può restare inesplorata». Anche Zaccagnini in un intervento a «Tribuna Politica» lascia filtrare la contraddittorietà dei suoi sentimenti. Accenna al «dramma che stiamo vivendo, che sto vivendo» e allo sforzo di «restituire al partito, e soprattutto alla famiglia, il nostro carissimo amico Aldo Moro». Craxi si incontra con Cossiga e Galloni e li mette a parte dei suoi tentativi, attraverso l’avvocato Guiso, di capire quali spazi reali di intermediazione esistano. Galloni sembra preoccupato che questi tentativi non vengano letti come incrinature del governo di maggioranza. Nello studio di Freato, l’avvocato Payot incontra il sottosegretario agli Interni, Lettieri. Dopo i primi contatti, emerge adesso un’eccessiva prudenza. Payot decide di rientrare in Svizzera, e da lì attivare i suoi rapporti e comunicare le eventuali notizie. A breve si defilerà. D’altronde le Br hanno già comunicato che vogliono che tutto accada pubblicamente e che stanno gestendo «autonomamente» il sequestro. Gli eventuali riferimenti di Payot alla clandestinità politica europea non giungerebbero a destinazione. Reazioni all’intervista di Lama sui rapporti tra sindacato e terrorismo. Macario, della Cisl, sembra criticare soprattutto l’anticipazione di temi, che devono essere discussi in sede di vertice confederale, attraverso le interviste ai giornali, svuotando di fatto ogni discussione. La Federazione lavoratori metalmeccanici ma anche Giovannini del PdUP, che è segretario confederale Cgil, insistono sulla necessità di distinguere «tra chi spara e chi vuol cambiare la Costituzione». Inoltre, dichiara, nel merito specifico delle proposte di Benvenuto e Lama sull’Alfa, che «riconsegnare tutto il potere in fabbrica agli imprenditori, ridurrebbe ogni capacità di iniziativa politica del sindacato». La riunione del direttivo confederale già fissata viene rinviata di almeno una settimana. Rossanda sul «manifesto» si dice d’accordo con la Flm e preoccupata dalle dichiarazioni di Lama per tre motivi. Per lei, mettere in contrasto acquisizione dei diritti dei lavoratori e uscita dalla crisi è suicida; identificare politica economica del sindacato con compatibilità aziendale azzera il passo che la classe operaia è chiamata a fare dal terreno rivendicativo al diverso «modello» di produrre; si sfascia l’unità sindacale mandando segnali non concordati in sede confederale. Nel pomeriggio migliaia di donne partecipano alla manifestazione di Roma per l’aborto. Ma si mostrano alcune fratture nel movimento femminista, in particolare tra chi rifiuta qualsiasi compatibilità rispetto alla legge in dibattito alla Camera e chi invece pensa di modificarla in positivo. Queste ultime sperano di agire, con la pressione di opinione e di piazza, soprattutto sui partiti della sinistra. Riunioni e incontri acuiranno nei giorni successivi le differenze. Le Br contattano il prof. Tritto, persona vicina ad Aldo Moro, perché ritiri una busta, ma la telefonata è intercettata dalla polizia, che si precipita sul posto indicato e sequestra tutto. Fotocopie della lettera di Moro alla moglie gireranno presto nel Palazzo. Tritto viene fermato e interrogato a lungo. Rimarrà intimidito. Il tentativo di lasciare libere le comunicazioni tra Moro e la famiglia è quindi negato. Le Br trovano immediatamente un altro canale per consegnare la lettera. È padre Antonello Mennini, un sacerdote già in confidenza con la famiglia Moro. Il prete la porterà subito alla moglie del presidente democristiano.
9 aprile
Cresce nella Dc il timore per le possibili iniziative della famiglia Moro e l’eco che potrebbero trovare all’esterno e dentro il partito. Un articolo di Scalfari su «la Repubblica» riporta le opinioni di un «interlocutore» autorevole, nonché anonimo, che parla da dentro il «bunker democristiano» di piazza del Gesù, dove lo stato maggiore Dc è riunito in permanenza. «Sì, la famiglia Moro è un problema. Certe contrapposizioni tra la famiglia e il partito, che la stampa ha squadernato, sono state per noi delle ferite profonde. I nostri avversari ci buttano sempre in faccia l’affermazione che noi non abbiamo il senso dello Stato. Per noi è una conquista. Non è facile decidere di chiudere ogni varco a una trattativa che sarebbe inevitabilmente una resa. Ma ci siamo arrivati a questa decisione». Enzo Biagi sul «Corriere della Sera» scrive della prigione crudele che, insieme ad Aldo Moro, stanno vivendo i suoi familiari arroccati nella casa di via del Forte Trionfale. «Quel giovedì 16 marzo – conclude – non soltanto è stata segnata la vita di Moro, e dei suoi, e il destino di cinque guardie, ma quella di tutti. Non saremo mai più quelli di prima». In casa democristiana riaffiora la battaglia politica tra le componenti interne. Tra quelli che – giornalisticamente – sono stati definiti gli «orfani di Moro» emergono contrasti e ripensamenti attorno al quadro istituzionale dato e la scadenza del settenato presidenziale. I morotei, i dorotei, la destra e la sinistra assediano la segreteria di Zaccagnini da punti diversi. Molte attenzioni sembrano appuntarsi sul ruolo che potrebbe svolgere, in questo momento, il presidente del Senato, Fanfani. Cossiga vola improvvisamente in Svizzera per incontrarsi con Maihofer, Lang e Furgler, ministri degli Interni di Germania Federale, Austria e Svizzera. Un comunicato diramato dall’agenzia elvetica dirà che «le conversazioni hanno avuto principalmente per oggetto il rafforzamento della lotta contro le operazioni dei terroristi, operazioni che oltrepassano le frontiere dei quattro paesi». Al ritorno, Cossiga si reca subito nello studio di Zaccagnini. Dopo pochi minuti arrivano i ministri della Difesa e delle Finanze, responsabili dei carabinieri e della guardia di finanza. Con Cossiga, responsabile della Pubblica Sicurezza, le tre polizie sono presenti. Dopo poco arrivano anche Andreotti e i capigruppo Dc Bartolomei e Piccoli. L’oggetto del vertice è top secret. Un migliaio di giovani si riunisce a Roma in un incontro, promosso dal Comitato di Lettere della Sapienza, da Dp e dal collettivo redazionale di «Lotta Continua», in opposizione all’iniziativa di piazza degli autonomi. Vittorio Foa dice che «il potere, interamente in mano alla Dc, di fronte all’instabilità politica e all’attacco terroristico punta alla repressione». Il cardinale Poletti si reca in visita alla signora Moro, forse da lei stessa sollecitato, nel tentativo di non dare per scontato l’immobilismo del Vaticano. Successivamente il cardinale andrà da Paolo VI, che all’Angelus non ha fatto alcun cenno alla vicenda. Ai giornalisti Poletti dirà che per ora è necessario un «prudente riserbo». A Genova viene ritrovato il volantino brigatista di rivendicazione del ferimento di Schiavetti. Contiene un violento attacco «alla forsennata mobilitazione dei berlingueriani, che stanno diventando sempre più i cani da guardia della borghesia imperialista». A Roma raffiche di mitra e lancio di bombe contro la caserma Talamo, sede dell’VIII battaglione dei carabinieri. A Milano sfila un corteo di migliaia di donne convocate da un appello della Consulta regionale femminile e del Comitato unitario antifascista «contro la violenza e il terrorismo». Fra interventi di deputate della Dc e del Pci, spiccano quelli di madri e mogli. Parlano la madre di Claudio Varalli, un giovane ammazzato tre anni prima dai fascisti, Francesca Dendena, figlia di una delle vittime della strage di piazza Fontana, Lucia Zubani Calzaro, che nella strage di piazza della Loggia, a Brescia, ha perso una sorella e un cognato, e Mirella Lenzi, vedova del vicequestore Padovani, ucciso a Sesto San Giovanni dal brigatista Walter Alasia, a sua volta ucciso. Riunione della segreteria comunista a Botteghe Oscure. Ci sono Berlinguer, Natta, Pajetta, Chiaromonte e altri. Al centro dell’attenzione ci sono il comportamento della Dc, l’ultimo messaggio di Moro, le iniziative della famiglia. Si teme possano aprirsi varchi nella «tenuta» democristiana, anche per via delle intestine contraddizioni tra correnti sul quadro politico. Comunque, i comunisti ripetono ai giornalisti che intendono continuare a comportarsi «con fermezza e senso di responsabilità». È prevista per l’indomani la riapertura del processo Lockheed, che vede imputati i due ex-ministri Gui e Tanassi, oltre ai fratelli Lefèvbre e altri.
10 aprile
Il Consiglio Superiore della Magistratura prende posizione sulle norme antiterrorismo, in discussione al Senato, proponendo importanti modifiche in senso garantista e chiedendo come elemento irrinunciabile «l’assoluta temporaneità». La scadenza fissata è l’approvazione del nuovo codice di procedura penale, che viene sollecitata. I magistrati parlano delle nuove norme come «misure eccezionali». Vertice, in mattinata, alla procura di Roma tra il procuratore generale Pascalino, il procuratore capo De Matteo, l’avvocato generale Caldora e il sostituto procuratore generale Guasco. Contrasti e polemiche sulla conduzione delle indagini vengono smentite da un comunicato ufficiale alla fine dell’incontro. Ma ci sono ancora voci sulla volontà di Pascalino di avocare a sé l’inchiesta e sulle difficoltà di formalizzare l’istruttoria contro ignoti per la strage di via Fani. A Torino viene gravemente ferito il ginecologo Ruggero Grio da un commando che ha fatto irruzione nel suo studio. L’attentato viene rivendicato dalle Squadre proletarie di combattimento. Arriva, nel pomeriggio, alle redazioni di giornali di Torino, Milano, Genova e Roma, il comunicato n. 5 delle Br. In esso si dice che «l’interrogatorio del prigioniero procede e aiuta a dipanare le trame sanguinarie nel nostro paese… confermiamo che tutto verrà reso noto al popolo, e anticipiamo dichiarazioni che il prigioniero Moro sta facendo…». Il comunicato ribadisce l’assoluta inesistenza di trattative segrete e misteriosi patteggiamenti, e si conclude con un appello alla necessità di organizzarsi per rispondere all’offensiva dello Stato, aiutato dall’opera di «polizia antiproletaria» del Pci. Le anticipazioni del «processo a Moro» sono nelle fotocopie di otto fogli scritti a mano e firmati da Aldo Moro senza data né intestazione. Sembrano note, appunti, stralci di pagine che Moro va scrivendo per rispondere alle domande dei brigatisti che lo interrogano. Vi si attacca Taviani e la sua «smemoratezza» in riferimento alla vicenda del sequestro Sossi. Moro insiste sulla bontà dello scambio e sulla necessità di riconoscere nei fatti la presenza di una guerriglia. Si chiede se dietro il «rigore», come modo d’intendere l’autorità dello Stato, non ci siano suggerimenti stranieri. Il senatore democristiano Umberto Agnelli, intervistato alla trasmissione televisiva di Maurizio Costanzo Bontà loro, si dice preoccupato della possibilità che l’emergenza diventi un regime e per regime intende «una maggioranza continuativa all’80 per cento». Assemblee nella Dc di Bari. Sono presenti anche i sottosegretari Dell’Andro e Rosa e altri parlamentari. La corrente morotea prende apertamente posizione per la trattativa. Qualcuno dice che «nel partito c’è chi si rallegra della piega che vanno prendendo gli avvenimenti e c’è già la corsa per ereditare la leadership di Moro, ma senza Moro non si compiono passi avanti, si regredisce tutti». L’udienza del processo Lockheed dura pochi minuti; si rende subito necessaria una Camera di consiglio per risolvere una eccezione di incostituzionalità sollevata dai difensori di Antonio Lefèvbre. Il processo, comunque, è stato spostato a maggio. A Bologna si riaprono le udienze per il processo, istruito dal rinvio a giudizio di Catalanotti, sui fatti del marzo 1977. In carcere sono da parecchi mesi diversi esponenti del movimento, che con scioperi della fame si sono più volte battuti per la riunificazione delle inchieste (su Radio Alice, l’assalto all’armeria Grandi) in modo da potersi meglio difendere rispetto l’ipotesi del «complotto» (insurrezione programmata degli eventi del marzo). Gli imputati denunciano un certo clima di vendetta politica e chiedono la riapertura dell’inchiesta, archiviata, sull’omicidio di Francesco Lorusso.
La cupola di Cosa Nostra decide di rinunciare a tutti i tentativi, messi in atto nei giorni precedenti, per individuare la prigione di Moro e far liberare il presidente democristiano. Buscetta, «uomo d’onore», era stato contattato in carcere da Bossi, braccio del gangster Turatello che spadroneggiava sulla piazza di Milano. Bossi era stato mosso da «personalità altolocate» per annunciare a Buscetta un traferimento al carcere di Torino. Lì avrebbe potuto entrare in rapporto con i brigatisti detenuti per il processo. Al trasferimento si era opposto però il generale dalla Chiesa, responsabile della sicurezza nelle carceri. Anche Stefano Bontade, capomafia e democristiano, si era dato da fare: tramite Francesco Marino Mannoia, aveva contattato Cosentino, il capodecina di Santa Maria del Gesù, quartiere di Palermo, che si trovava a Roma. Ma a Roma, Pippo Calò, cassiere della mafia, si era opposto, convinto che fossero gli stessi leader democristiani a volere Moro morto. Moro scrive delle lettere d’addio ai suoi cari.
11 aprile
Alle 7.30 un agente di custodia delle Nuove di Torino, Lorenzo Cotugno, viene ucciso da un commando delle Br. Tre mesi fa gli era stata bruciata sotto casa l’automobile in un attentato rivendicato dai Nuclei armati comunisti, e per questo aveva chiesto di essere trasferito. Prima di morire risponde al fuoco colpendo uno dei suoi attentatori che viene lasciato dai suoi compagni – data la gravità delle ferite – in un pronto soccorso. Si chiama Cristoforo Pian-cone, un recente passato nelle file più dure del movimento; ha 28 anni, è originario di Grenoble, e fino al 1976 lavorava alle Presse della Fiat. Si dichiara prigioniero politico. Al processo di Torino, sfilano testimoni e vittime di precedenti sequestri delle Br. Depone Bruno Labate, sindacalista della Cisnal, prima vittima, il 12 febbraio 1973, di un sequestro politico a Torino. Ci sono i soliti tre «osservatori» brigatisti, che ruotano per ordine alfabetico. L’atmosfera è tesissima per via dell’attentato a Cotugno. I quotidiani riportano la notizia dell’arrivo delle pagine di Moro come una «voce stravolta», una «confessione estorta», un «Moro irriconoscibile». Un editoriale di Sandro Viola su «la Repubblica» recita: «Con curiosa petulanza Aldo Moro ha cominciato ad attaccare uomini, correnti, fasi politiche della Dc… è dal giorno del primo messaggio che il partito descrive il suo ex leader come succube della violenza dei terroristi».
In casa democristiana è in corso una sorta di «esame del partito». Piccoli e Bartolomei sono incaricati di sondare l’atteggiamento degli uomini della Dc, dalle personalità più in vista fino ai quadri periferici. «Tutti si sono pronunciati per un atteggiamento di grande fermezza… Bari è comprensibile, lì sono tutti amici intimi di Moro». E Zaccagnini? «Zaccagnini tiene. E tiene molto bene». Taviani fa sapere di non avere alcun commento da fare; lui «non si mette a fare polemiche con le Br». La Camera respinge le pregiudiziali presentate da Dc, radicali e fascisti, a riguardo della normativa sull’interruzione della maternità e avvia l’esame specifico degli articoli di legge. C’è preoccupazione nel mondo laico e nel movimento delle donne che il testo possa essere peggiorato in un accordo di mediazione politica. L’aula di Montecitorio in questi giorni è piena di deputati. La Flm rende pubblico un documento sulle questioni del terrorismo e della democrazia. Gli accenti sono diversi da quelli duri usati da Lama, ma la differenza si fa più sottile.
12 aprile
Perquisizioni e arresti si moltiplicano, in particolare nel Sud d’Italia. Gambino su «la Repubblica» scrive un articolo contro il «fronte delle trattative»: «Un negoziato può essere accettato solo se si ammette che ci si trova ormai in una condizione di “guerra civile”. Ma, se si accetta questa premessa, non ci si può fermare a mezza strada». Con la conseguenza che, al pari di Moro, tutti i «sospetti» e i «fiancheggiatori» devono essere considerati come nemici, nei confronti dei quali è lecito regolarsi secondo una sommaria «legge di guerra». Sullo stesso giornale, intervistato da Jesurum e Rivolta, Oreste Scalzone parla dell’Autonomia e delle differenze con le Br. Tra l’altro, dice: «Convivono oggi nello stesso operaio un impianto ideologico favorevole al compromesso democratico, e un atteggiamento che vede di buon occhio la pratica del terrorismo. A molti va bene che la gerarchia di fabbrica sia sotto tiro». A Torino, al processo contro le Br, udienza di routine. Non si è presentato l’ex dirigente Fiat, Ettore Amerio, sequestrato dai brigatisti nel dicembre ’73, la cui deposizione era prevista per oggi. La Camera è impegnata fino a notte fonda nella discussione della legge sull’aborto. I radicali continuano nel loro ostruzionismo, con la presentazione di una raffica di emendamenti. Questo atteggiamento viene letto dai «partiti democratici» come un modo di paralizzare l’attività parlamentare, che dovrà affrontare anche l’approvazione del bilancio statale e la modifica della legge Reale. Si apre il direttivo unitario della Confederazione sindacale con una relazione di Benvenuto della Uil. Usa parole durissime: «Di fronte ai terroristi che hanno dichiarato guerra allo Stato democratico non sono tollerabili giustificazioni di alcun genere». Lo slogan «né con lo Stato né con le Br» viene definito «aberrante». Benvenuto delinea anche i punti di una strategia sindacale per i prossimi mesi: 1) la situazione del paese è talmente grave da far escludere qualunque iniziativa di sciopero generale contro il governo; 2) le piattaforme contrattuali non potranno che avere un contenuto salariale obiettivamente ristretto. Subito dopo ha preso la parola Carniti, per la Cisl, ribadendo le critiche mosse a Lama nei giorni precedenti. Amendola rilascia un’intervista al «Corriere della Sera» sulla violenza, sul ’68, sugli intellettuali e il Pci. Per Amendola il vero pericolo non sono gli esponenti del partito armato: «Sta piuttosto nella copertura, nella cintura di protezione che esiste un po’ dappertutto e coinvolge anche certi nomi del mondo della cultura». Numerosi sono stati in questi giorni gli interventi di storici, intellettuali, politici comunisti che, per un verso, affrontano una sorta di revisione storiografica della storia dei comunisti italiani e, per l’altro, approfondiscono la frattura con tutta la sinistra extraparlamentare. Si prepara il Comitato centrale del 17 aprile; il tema è «l’estremismo». Il presidente del Consiglio riceve il procuratore capo De Matteo, che ripropone l’ipotesi di una taglia. Intanto il procuratore genera-le Pascalino ha chiesto «in visione» tutti gli atti del procedimento in corso su via Fani. Le indagini comunque non registrano novità. Un illustre neurologo dichiara che «la scrittura di Moro è tipica di chi è costretto a ingerire psicofarmaci».
13 aprile
Si precisa meglio la figura di Cristoforo Piancone, il brigatista ferito e arrestato a Torino. Perito tecnico, lo si ricorda alla Fiat fin dal ’69, operaio alle Carrozzerie, e in contatto con la sinistra extraparlamentare. Dal ’76 se n’erano perdute le tracce. Un appello affinché si apra una «trattativa intesa a salvare la vita dell’on. Moro» viene pubblicato sulla «Gazzetta del Mezzogiorno» di Bari. Tra le prime firme quelle di parlamentari, uomini di Chiesa, docenti universitari e funzionari dello Stato.
Alla Camera prosegue lo scontro sull’aborto. L’ostruzionismo radicale costringe commessi e parlamentari a turni continui di presenza. Pannella difende la sua battaglia dicendo che la maggioranza tende a imporre alla Camera un programma di lavori per evitare i referendum richiesti dai radicali (aborto, legge Reale, legge manicomiale, Inquirente). Al Senato, la Commissione Giustizia approva rapidamente l’abrogazione della vecchia legge Reale e la conversione in legge del decreto antiterrorismo. Nonostante alcune modifiche introdotte, l’impianto normativo segue l’indicazione di urgenza ed eccezionalità, diminuendo le garanzie del cittadino. Supervertice al Viminale. All’incontro, presieduto dal sottosegretario Lettieri, partecipano i responsabili della polizia, dei carabinieri, della guardia di finanza e dei Servizi segreti militari e civili. Oltre alla necessità di fare il punto sulle indagini, si rafforza, tra gli inquirenti, l’idea di un coinvolgimento internazionale nella preparazione dell’agguato di via Fani, oltre che nella gestione del sequestro. L’esame del testo dei comunicati brigatisti mostrerebbe con chiarezza una mano non italiana. La procura intanto ridimensiona la richiesta degli atti, chiarendo che non si tratta di «avocazione». Pascalino ha comunque nominato il sostituto procuratore generale Guasco «consulente giuridico» per aiutarlo a seguire la vicenda Moro. A Torino si svolgono i funerali della guardia carceraria Cotugno. Sono presenti il sindaco Novelli, varie autorità e dietro gli striscioni di numerose fabbriche, dirigenti sindacali e lavoratori. C’è anche Maurizio Puddu, il consigliere provinciale Dc ferito dalle Br l’estate precedente. Il vescovo, nell’omelia, ricorda la lunga sequenza di funerali, altre cerimonie simili. Direzione democristiana molto attesa – ci sono tutti – a piazza del Gesù. Viene confermato che «la linea adottata dal partito rappresenta l’unico modo per contrastare il disegno di destabilizzazione delle Br, anche se è necessario non lasciare inesplorata nessuna strada per restituire Moro alla famiglia, al paese, al partito». È l’attestazione sulla linea della fermezza. Tra i corridoi vengono catturate frasi di altri leader democristiani. Granelli: «Ci sono strati cattolici per i quali la vita di un uomo viene prima di ogni altra cosa. Noi li consideriamo con rispetto. Però un partito politico ha i suoi valori, la sua dottrina, le sue responsabilità». Galloni, intervistato dal Tg2, dice: «La vita di Moro si salva difendendo lo Stato». Solo Fanfani sembra esprimere, tra estreme cautele, qualche perplessità. Viene votata da tutti una dichiarazione unitaria. Sono stati rivendicati dai Nuclei armati comunisti due attentati compiuti a Siena nella notte di martedì 11 contro un grande magazzino Upim e un supermercato Coop. Trentuno appartenenti all’Autonomia di Padova sono stati rinviati a giudizio. L’inchiesta era stata avviata l’anno precedente dal sostituto procuratore Calogero, con l’invio di una sessantina di comunicazioni giudiziarie. Anche cinque docenti di Scienze Politiche sono nel mirino dell’inchiesta, tra cui il professor Toni Negri.
14 aprile
Si riparla dell’elenco «ragionato», messo a punto dal Viminale, di trecento presunti brigatisti, dopo i clamorosi errori della retata del 3 aprile. Nella compilazione sembra siano finite le informazioni provenienti dall’interno delle aziende che hanno visto nascere il fenomeno Br (Mirafiori, Ansaldo, Sit-Siemens), e si controllano gli elenchi degli ex-dipendenti, di quelli licenziati o che hanno lasciato la fabbrica in maniera improvvisa. Anche il Pci collabora, met-tendo a disposizione i suoi elenchi di ex iscritti. Al direttivo dei tre sindacati non si placano le polemiche interne. Macario, segretario generale Cisl, ha riacceso le critiche verso Lama e la Cgil. L’ingresso del Pci nella maggioranza pone problemi nuovi e «antichi» – dice –, quelli di un sindacato stretto tra due pericoli: «O canalizzazione del consenso o relegato nelle sue funzioni tradizionali». Lama ha replicato dicendo che per lui il nocciolo del problema è dare applicazione alla linea dell’Eur. «Si tratta di scegliere tra la sclerosi pigra di chi difende tutto così com’è e chi ha il coraggio intellettuale di vedere il nuovo, buono o cattivo che sia». Per Bruno Trentin può esservi nella nuova situazione politica «una possibilità di cedimenti e di strumentalizzazioni». Dice: «La democrazia si difende e il terrorismo si sconfigge anche con la qualità delle decisioni che prenderemo a partire da questo direttivo». L’incontro però si è concluso con un documento abbastanza formale. Alla Camera, sospeso l’ostruzionismo radicale, viene approvata la legge sull’aborto con 308 voti favorevoli e 275 contrari. A favore, comunisti, socialisti, liberali, socialdemocratici, repubblicani e indipendenti di sinistra; contrari, democristiani, missini, demonazionali, radicali e PdUP-Manifesto. Modifiche sostanziali apportate alla legge prevedono la consultazione del padre del concepito e i 18 anni come età minima necessaria per l’autodeterminazione. Entrambe le modifiche erano state osteggiate dai movimenti femminili e dall’Udi, e le prime dichiarazioni di donne sembrano improntate a un atteggiamento fortemente critico verso i partiti di sinistra. Il Pci si è astenuto nella votazione sui limiti d’età. Il sostituto procuratore Infelisi ha disposto un sopralluogo nello studio di Moro in via Savoia, dopo che sono corse voci sull’arrivo di lettere «private» di Moro e di trattative segrete della famiglia attraverso Nicola Rana, segretario particolare del leader Dc. Intanto a Roma interi edifici vengono setacciati da giorni. Tra questi, alcuni vicinissimi alla prigione di via Montalcini. Catena di attentati nel Veneto durante la notte, ben otto in diverse località, rivendicati dai Proletari comunisti organizzati e dalle Brigate comuniste combattenti. Prese di mira sedi democristiane, abitazioni di esponenti Dc, automobili del capo della Digos e altro. Colpi di pistola sono stati sparati contro la casa del pubblico ministero Pietro Calogero. Esce sul «manifesto», a cura di Lucia Annunziata e Maurizio Matteuzzi, la prima parte di un’inchiesta sulle Br. È la prima volta che il fenomeno brigatista viene affrontato con approfondimento critico e taglio giornalistico. Il Consiglio dei Ministri vara oltre venti provvedimenti. I più importanti riguardano l’indizione, per l’11 giugno, dei referendum sull’aborto, la legge Reale, l’Inquirente, i manicomi e il finanziamento pubblico dei partiti. Allo stato delle cose solo l’ultimo sembra potrà davvero svolgersi, dato che per le altre questioni è in corso il dibattito parlamentare tendente a modificare le normative vigenti. Sono stati, inoltre, «sbloccati» migliaia di miliardi per il Mezzogiorno. Viene valutata con Forlani, ministro degli Esteri, la possibilità di mediazione della Croce Rossa Internazionale per salvare Moro. Nella sede socialista di via del Corso, a Roma, gli avvocati Guiso e Magnani Noya si incontrano con esponenti del partito, per valutare e analizzare i documenti brigatisti e le lettere di Moro e capire quali spazi reali di trattativa esistano. A Genova vengono rivendicati dalle Br tre attentati compiuti nella notte ad automobili appartenenti a esponenti democristiani della città. Intanto, l’Ucigos sta tentando di ricostruire il percorso biografico di quelli che hanno abbandonato le fabbriche negli ultimi anni. Dice un funzionario: «Sono numerosi».
Su «la Repubblica» scambio di opinioni tra Pansa e Pintor, direttore del «manifesto», a proposito della necessità o meno di trattare con le Br. A Pintor sembra che la distinzione tra falchi e colombe sia schematica e retorica, come buona parte delle «parole ufficiali» dette dal 16 marzo in poi. Dice inoltre: «Nel dopoguerra, l’anticomunismo è servito per garantire la continuità dello Stato fascista. Adesso non vorrei che l’antibrigatismo diventasse l’alibi per assicurare la continuità dello Stato democristiano». I movimenti delle donne mostrano profonda delusione per le modifiche apportate dalla Camera al progetto di legge sull’aborto. Luciana Castellina, del PdUP-Manifesto, parla di «legge che snatura e offende milioni di donne». Anche dall’Udi – più vicino ai parti-ti della sinistra – dichiarazioni «scoraggiate», si parla di «limiti inaccettabili». Le femministe parlano di «ruolo patriarcale e maschilista» del Parlamento e dell’assoluta incapacità di riconoscere le donne come soggetto sociale e politico.
15 aprile
A Bologna, la polizia carica all’uscita dal tribunale, gruppi di amici, parenti e avvocati degli imputati al processo per i fatti del marzo 1977. Scontri sono proseguiti attorno piazza Verdi e all’Università. C’è un clima da «resa dei conti». Il tribunale ha intanto accolto la richiesta, avanzata dalla difesa, di acquisire tutti gli atti relativi a quel periodo. A essa si era opposto il giudice Catalanotti, che viene tacciato dal «movimento» di essere il diligente esecutore di una volontà politica del Pci. Terribile incidente ferroviario sul tratto Bologna-Firenze. Più di 40 i morti. Il disastro sembra dovuto a una frana. Le operazioni di soccorso sono rese difficili dalle condizioni ostili del tempo. «L’interrogatorio al prigioniero Aldo Moro è terminato». Comincia così il comunicato n. 6, di cui le Br, in serata, danno notizia alle redazioni dei principali giornali di Torino, Milano, Genova e Roma. Ma, stando a quanto viene detto subito dopo, le «risultanze» del processo non sembrano al momento interessare le Br: «…quali misteri ci possono essere del regime Dc da De Gasperi a Moro che i proletari non abbiano già conosciuto e pagato con il loro sangue?… a questo punto facciamo una scelta». La «scelta» di cui parla il comunicato riguarda la diffusione delle informazioni di cui sono in possesso «attraverso i mezzi di divulgazione clandestina delle Organizzazioni combattenti». In realtà, suona come un’inversione di tendenza rispetto alla posizione precedente. Infine si comunica che «Aldo Moro è colpevole e viene pertanto condannato a morte». Immediato vertice al Viminale dopo l’arrivo del comunicato, tra Cossiga e tutti gli inquirenti. È passato un mese dal sequestro di Moro. Dall’estero continuano ad arrivare dossier sui personaggi coinvolti nel terrorismo internazionale. Intanto sulla stampa si ipotizza, a proposito della perquisizione ordinata da Infelisi nello studio di via Savoia, che essa sia una prova dei contrasti tra i magi-strati inquirenti e la famiglia di Moro e i suoi amici. Si apprende inoltre che all’origine della supposta «avocazione» del procuratore capo c’è la richiesta del ministro degli Interni di ricevere gli atti dell’inchiesta. L’insolita iniziativa è consentita adesso dalle norme antiterrorismo. La notizia del comunicato brigatista arriva a tarda sera a piazza del Gesù, dove Zaccagnini convoca gli altri capi democristiani dopo aver ascoltato per telefono Andreotti e Cossiga. Viene stilata una brevissima nota, undici righe, in cui si sottolinea di non lasciare «nulla di intentato per salvare la vita del nostro presidente». Sembra un cambio di rotta rispetto alle decisioni della Direzione di giovedì 13. Interrogando i capi democristiani, qualcuno mette l’accento sull’aspetto «umanitario», qualcun altro «sui doveri indicati dalla Direzione». L’impressione è che il comunicato rifletta molto le emozioni di Zaccagnini. Per l’indomani mattina è fissata una nuova Direzione Dc. Guerzoni porta il comunicato Br a casa Moro e vi si intrattiene. Più tardi arrivano Lettieri e Rana. Anche Craxi si reca a via del Forte Trionfale.
16 aprile
Il presidente Leone è indispettito per le critiche alla sua «invisibilità» nella vicenda Moro. La stampa la attribuisce a una sua cronica debolezza, per via dei possibili coinvolgimenti nello scandalo Lockheed. Leone ha deciso di rivolgere un pubblico appello a Eleonora Moro. Cossiga e Andreotti si recano al Quirinale e, solo dopo l’incontro, l’appello sarà recapitato a casa Moro. Il capo dello Stato, a nome degli italiani, si dichiara vicino alla famiglia e spera in un gesto di resipiscenza da parte dei brigatisti. Tutto qui. Si svolge la Direzione democristiana. Dopo le reazioni «a caldo», il dibattito conferma le precedenti posizioni di fermezza. Si decide di pubblicare un’edizione straordinaria del «Popolo», anche per dissipare le voci di un’improvvisa scelta «trattativista» della Dc. Viene indetta una conferenza stampa in cui si conferma l’intransigenza democristiana, a rassicurare gli altri partiti della maggioranza. Tuttavia, non vengono ostracizzate iniziative «umanitarie». Si decide di sollecitare organismi internazionali, quali la Caritas Internationalis e Amnesty International. Vengono scartate altre ipotesi come quella di coinvolgere Lelio Basso o di rivolgersi al cardinale Poletti. In realtà, è la famiglia Moro che sta attivando tutti i canali disponibili per giungere a dichiarazioni della Chiesa, dell’Onu, della Croce Rossa, della Caritas e di Amnesty. Anche i comunisti, messi al corrente di una possibile iniziativa di Amnesty, si mobilitano per precisare e spiegare che un intervento non ben calibrato potrebbe attribuire alle Br un «riconoscimento politico» dalle conseguenze devastanti.
17 aprile
La sessione di Comitato centrale del Pci si apre con una relazione di Bufalini, tutta incentrata sull’attualità: «Dopo il 16 marzo, non si può tornare a una normalità di vecchio tipo» dice. L’agguato di via Fani viene analizzato come il tentativo di colpire la nuova maggioranza e di «provocare il caos e lo sbandamento nella Dc, privandola del suo capo più autorevole». Riferendosi alle reazioni politiche, sostiene che «la fermezza è stata il saggio partito a cui ci si è attenuti». Parlando delle lettere di Moro dice che «in nessun modo riteniamo si possano attribuire chiarezza di significato, validità e valore». Insiste sulla necessità di isolare brigatisti, simpatizzanti e fiancheggiatori. «Il punto politico più importante e grave – prosegue – è la contiguità o vicinanza del terrorismo rispetto all’area dell’estremismo eversore e della violenza…». È previsto che il dibattito prosegua anche l’indomani. Eleonora Moro telefona al presidente del Consiglio sollecitando un intervento del governo presso Amnesty International. Teme che per la ricorrenza del 18 aprile 1948 le Br possano decidere un’azione simbolica. Andreotti le comunica di essersi già mosso in proposito, mandando a Londra l’ambasciatore Gaja e il rettore dell’Università Cattolica, Lazzati. Questa sarà l’ultima telefonata tra i due.
Nel pomeriggio, da Londra, Dick Oosting, vicesegretario di Amnesty International, lancia un appello, offrendo i propri buoni uffici, per la vita di Aldo Moro in base a princìpi umanitari internaziona
li. Amnesty precisa di essere stata contattata da persone vicine ad Aldo Moro e alla sua famiglia e che, secondo la propria linea, non agisce per conto di governi, partiti politici o gruppi di interesse. Il presidente americano Carter ha inviato un messaggio ad Andreotti, in cui assicura il suo appoggio nella lotta al terrorismo e fa sapere che sta pregando per la restituzione di Moro. Conclude dicendo: «Ella ha dato prova di saggezza e coraggio nel rinnovare la sua dedizione ai princìpi e ai valori democratici». A Bologna, l’Ufficio istruzione decreta di non dare luogo alla richiesta, formulata dal tribunale, di acquisizione degli atti riguardanti tutti i fatti del marzo 1977. Una folta assemblea di movimento legge questo intervento come una mossa «politica» a difesa dell’inchiesta e del processo, tutto giocato sull’«allarme sociale». Gli avvocati difensori chiedono la scarcerazione dei loro assistiti. Al processo di Torino, Curcio e gli altri detenuti hanno insistentemente attaccato Edgardo Sogno, partigiano bianco e agente segreto degli inglesi durante la Resistenza. Negli anni Settanta è stato al centro di un tentativo di instaurazione di un regime autoritario e per questo processato dal giudice Violante. Il presidente non consente le continue domande poste dagli imputati. Ma alla fine chiede l’acquisizione di certi atti cui si riferivano i brigatisti e che riguardavano le complicità di cui aveva goduto Sogno fino alle più alte autorità dello Stato. Si aspettava il giudice Sossi come testimone, che ha però presentato un certificato medico che attesta la sua impossibilità di spostarsi da Genova. L’avvocato Guiso si intrattiene con i giornalisti dicendosi convinto che Moro è ancora vivo, che le cose che scrive vanno prese sul serio e che va salvato. L’avvocato Sergio Spazzali condivide questa opinione e pensa che lo spazio di manovra si stia riducendo forse a giorni, forse a ore, e conclude: «O c’è una proposta che viene dal potere, altrimenti è molto difficile che le Br tornino indietro». Monsignor Hussler, presidente della Caritas Internationalis, dichiara: «È stato ipotizzato il nostro intervento per salvare la vita dell’onorevole Moro, ma almeno sinora questo intervento non è stato sollecitato. Qualora fossimo interpellati, saremmo disponibili».
18 aprile
Esce un editoriale di Deaglio su «Lotta Continua» in cui si sottolinea criticamente la svolta del Pci «nel farsi Stato»; inoltre, si dice che, se oggi le Br uccidessero Moro, si ripeterebbe il 18 aprile 1948, che vide la sconfitta del fronte delle sinistre e l’inizio del trentennale potere democristiano. Una telefonata anonima alla redazione romana del «Messaggero» indica la presenza di comunicati Br in piazza Belli, a Trastevere. Il giornalista che accorre sul posto trova una busta commerciale con dentro una fotocopia di un breve volantino sormontato dalla scritta «Br, comunicato n. 7». Vi viene annunciata la morte di Moro mediante «suicidio», proprio nella ricorrenza del 18 aprile. Si fornisce anche l’indicazione del luogo dove recuperarne il corpo: è il Lago della Duchessa, una piccola località montana del reatino. Il tono del breve scritto è cinico e beffardo, ma al momento nessuno si sofferma troppo a verificarne l’autenticità. La notizia si diffonde immediatamente. Zaccagnini va subito a casa di Eleonora Moro, ma non riesce a parlarle. Il vicecapo della polizia, Santillo, e il procuratore capo si recano in elicottero sulla zona, dove stanno affluendo reparti militari. Lo spiegamento di forze è massiccio, così come l’impiego di mezzi. Il luogo non è facilmente accessibile per le abbondanti nevicate dei giorni precedenti. Tra l’altro, il lago è ghiacciato. Alle 19.00 le ricerche vengono sospese per le condizioni proibitive. A Roma, sulla Cassia, una perdita d’acqua in un condominio allarma prima l’inquilina del piano inferiore e poi l’amministratore dello stabile che sollecita l’intervento dei pompieri. Questi si renderanno presto conto di trovarsi in uno strano appartamento: è il «covo brigatista» di via Gradoli. Avvisata la polizia, si concentreranno nella zona centinaia di persone. Il «covo» è un’importante base logistica attiva e per gli investigatori è un «buon colpo». Il Comitato centrale comunista, in corso dal giorno prima, viene sospeso alla notizia del comunicato brigatista e i dirigenti partono per raggiungere le sedi periferiche. Bufalini, in una breve replica finale, dice che «bisogna prepararsi al peggio», mentre Cossutta parla di «guerra aperta». Berlinguer e Chiaromonte, dopo una riunione di Direzione, vanno a piazza del Gesù per esprimere solidarietà alla Dc. Alla sede democristiana vi sarà per tutto il giorno un incessante pellegrinaggio dei rappresentanti di tutti i partiti. Fin dalla mattina c’è chi ancora non crede alla morte di Moro, chi parla di una falsa traccia, di un diversivo. Ma i più disperano e parlano di «drammatica certezza». Si inseguono voci di un’immediata convocazione delle Camere e della proclamazione di uno sciopero generale. A Milano e Torino le fabbriche vengono allertate «alla mobilitazione» dai sindacati. A sera, una nota della segreteria Dc dichiara di non ritenere esaurito il filo di speranza sulla vita del presidente democristiano. Riunione straordinaria della Direzione socialista a via del Corso, a Roma. L’annuncio del comunicato Br ha congelato un dibattito sulla distinzione tra la linea dura del Pci e quella possibilista sostenuta da Craxi. Si continua domani. Assemblee all’Università di Roma. Un settore del movimento si interroga sull’epilogo della vicenda Moro e le sue conseguenze politiche. L’area dell’Autonomia analizza il volantino e lo definisce falso. Scalzone dice: «Il presunto comunicato n. 7 delle Br lo ritengo apocrifo». Da Torino, l’avvocato Guiso, che definisce il volantino «una provocazione», afferma che Curcio e Franceschini non riconoscono nel comunicato lo «stile» delle Br.
19 aprile
I quotidiani titolano a nove colonne sulla sorte di Moro: «Sarebbe stato assassinato», «È vivo o morto?», «Aldo Moro è stato ucciso». Non tutti credono alla veridicità del comunicato. Lo stesso Cossiga riferisce al Senato che «il volantino presenta caratteristiche del tutto analoghe a quelle dei comunicati precedenti, tuttavia permangono dubbi sulla sua autenticità». Duemila uomini intanto sono impegnati nelle ricerche. Cariche di tritolo vengono fatte esplodere sulla superficie ghiacciata del lago e dei sommozzatori calati nelle buche provocate. Ma del corpo di Moro nessuna traccia. Chi davvero sembra credere alla notizia è Sciascia, di cui esce su «la Repubblica» una breve dichiarazione che si conclude così: «L’abolizione della pena di morte è stato un fatto rivoluzionario in Italia e io speravo che al di là della pietà le Br se ne ricordassero almeno nel loro dirsi rivoluzionarie. Non è stato cosi. Si apre per tutti noi un duro avvenire. Ma per loro è il principio della fine». Rilievo sulla stampa internazionale alla notizia della possibile morte di Moro. Il «Washington Post» scrive di «decesso politico del conciliatore dell’Italia» e che, qualunque sia l’esito delle indagini, la vicenda «ha posto virtualmente fine alla vita politica di questo maestro di stile piuttosto che di sostanza». Sul «New York Times» James Reston scrive che Mosca usa le Br in Italia come i cubani in Africa. Da molti governi arrivano messaggi di solidarietà «per il tragico destino di Aldo Moro». Viene pubblicato su «Lotta Continua» un estremo appello in cui si chiede «al governo, al parlamento, ai partiti, a coloro che detengono Aldo Moro, di fare tutti i passi necessari e formali per la liberazione». È firmato da persone diversissime tra loro: vescovi e sacerdoti, nomi cattolici di prestigio, filosofi e intellettuali italiani e stranieri, politici e sindacalisti. A promuovere la raccolta di firme è stato il movimento Febbraio ’74. Anche la presidenza della Conferenza Episcopale Italiana si è pronunciata con un appello in favore delle trattative con i brigatisti. Il fronte della fermezza parla di «pericolo di cedere». Guerzoni, a nome della famiglia Moro, ringrazia pubblicamente Amnesty International e la Caritas per la loro disponibilità. Ad alcuni parlamentari Dc andati a trovarla, Eleonora Moro e i suoi figli hanno addossato al partito la colpa di essersi attestato su una linea di rifiuto della trattativa prima ancora di avere individuato il possibile oggetto della stessa. Pensano che abbia intralciato i loro contatti e le loro iniziative, che abbia «sconsigliato» il Vaticano a interessarsi del caso e che abbia fatto saltare lo studio di via Savoia come «luogo neutrale». Attacco con armi automatiche e bombe, rivendicato dalle Br, contro una caserma dei carabinieri, a Roma, nei pressi di villa Ada, dove si trova anche l’abitazione del generale dalla Chiesa. Molotov, anche contro l’ingresso del garage della palazzina dove abita l’ex procuratore generale di Torino, della Veneria, che si occupò della strage seguita all’intervento dei carabinieri nel carcere di Alessandria. Incendio doloso, a Torino, appiccato da una bottiglia molotov, in un reparto della Fiat Mirafiori, contro uno dei magazzini della selleria. Continua l’elenco dell’ingente materiale ritrovato a via Gradoli. Adesso si cerca l’affittuario, l’ingegner Borghi, che è stato visto uscire di mattina presto, e la sua convivente, una donna che molti ricordano «vistosamente bella». Sono Mario Moretti e Barbara Balzerani, capi delle Br. L’avvocato Guiso, che insiste sulla sua opinione di non autenticità del comunicato n. 7, dice che si sta perdendo tempo prezioso. «Chi vuol salvare Moro avanzi una proposta certa, precisa, reale. Bisogna interrompere questa situazione di stallo».
Zaccagnini si è presentato alle 19.00 in sala stampa a piazza del Gesù, dove ha letto un messaggio inviato a tutte le sedi democristiane d’Italia, in cui si parla di «speranza cristiana che in questa terribile prova ci unisce a Moro e alla sua famiglia» e invita tutti gli iscritti a unirsi in preghiera.
20 aprile
Alle 7.10 del mattino, a Milano, un gruppo di tre uomini uccide con sette proiettili alla testa e alle spalle Francesco Di Cataldo, maresciallo delle guardie carcerarie di San Vittore. Mezz’ora dopo una telefonata rivendica l’attentato a nome delle Br. Alla Camera si dibatte sul bilancio e sulla possibilità di discutere la legge Reale in commissione Giustizia piuttosto che in aula; a favore di un dibattito in seduta pubblica è stato inviato al presidente Ingrao un appello firmato da magistrati, giuristi, avvocati. È durante la nervosa riunione parlamentare che arriva dalla redazione Ansa di Torino la notizia del comunicato n. 7 delle Br. Poco più tardi viene ritrovato a Roma un plico che contiene, oltre al comunicato, una foto di Moro con in mano una copia del quotidiano «la Repubblica» del giorno precedente. Moro è vivo. I brigatisti per la prima volta chiedono esplicitamente uno scambio. Dopo aver denunciato la Dc per il «genocidio politico» perpetrato nei campi di concentramento dove sono rinchiusi i detenuti rivoluzionari, dichiarano che «il rilascio del prigioniero Aldo Moro può essere preso in considerazione solo in relazione della liberazione di prigionieri comunisti». Viene anche dato un preciso ultimatum alla Dc, 48 ore di tempo. La seconda parte dello scritto è dedicata al «falso comunicato del 18 aprile», da loro considerato come parte di una macabra messa in scena e di una guerra psicologica ordita da Andreotti. Marco Boato, che depone al processo di Torino sull’infiltrato Pisetta, lancia un appello pubblico a Curcio, che conosce dai tempi dell’Università a Trento, perché difenda il diritto alla vita di Moro. Mentre le ricerche al Lago della Duchessa vengono definitivamente interrotte, la notizia del nuovo comunicato Br si diffonde rapidamente. Riguardo alla richiesta di scambio, il primo «no» viene dal Pci: ha la forma della sconfessione delle firme che Lucio Lombardo Radice e Umberto Terracini, parlamentari comunisti, hanno apposto sotto l’appello lanciato da «Lotta Continua». L’appello ha intanto raccolto un numero considerevole di aderenti, tra cui molti vescovi, esponenti socialisti, sindacalisti e la redazione del «manifesto». Dice una dichiarazione comunista: «La linea del partito rimane il netto rifiuto di piegarsi al ricatto». Nel pomeriggio, una riunione di segreteria confermerà questo principio, e più tardi Berlinguer, accompagnato da Natta, lo ripeterà ad Andreotti che sta ricevendo a palazzo Chigi tutti i segretari della maggioranza. Il segretario comunista, uscendo, incontrerà Craxi, che ha tenuto una riunione di segreteria. I socialisti, schierati decisamente per una soluzione, diramano ufficialmente un comunicato: «Lo scambio dei prigionieri è tecnicamente impossibile e va escluso. Ma possono esserci altre vie d’uscita». Craxi dà incarico al giurista Giuliano Vassalli di esplorare altre possibilità, anche a livello di diritto internazionale. Questa posizione crea agitazione tra i comunisti, che la considerano «oltre che grave, un modo di aumentare le difficoltà della Dc e di isolare il Pci». Da Andreotti si recheranno anche i repubblicani e i socialdemocratici a confermare la linea dell’intransigenza. Nel frattempo, don Mennini, il parroco vicino alla famiglia Moro, è stato contattato nuovamente dalle Br per ritirare una busta che si premura di consegnare ad Eleonora Moro. Ci sono due lettere di Moro, una per Zaccagnini e una per Paolo VI. Quest’ultima, da pubblicare sui giornali, verrà consegnata al Papa ma non alla stampa. Nella lettera a Zaccagnini dice: «Possibile che siate tutti d’accordo nel volere la mia morte per una presunta ragione di Stato che qualcuno lividamente vi suggerisce?… Che la condanna sia eseguita dipende da voi». La famiglia, presa visione con ritardo della foto di Moro e del comunicato con l’ultimatum, fa recapitare a piazza del Gesù, tramite la Anselmi, un lapidario messaggio: «La famiglia tiene a far sapere, a scanso di equivoci, che è ferma nel richiedere che venga salvata la vita di Moro. La Dc deve dire stasera che è favorevole alle trattative; e deve dirlo il governo. Se no, domattina, la famiglia dissocerà le sue responsabilità dalla Dc e si riserva di informare l’opinione pubblica sulle valutazioni che essa dà di tutta questa vicenda». A sera, riunione democristiana, che si protrae fino alle 3.00 del mattino. Cossiga analizza la lettera e parla di «facoltà mentali svincolate da valutazioni morali». Tutti si dicono contrari al «riconoscimento» delle Br come gruppo combattente e ci si affida alla Caritas «per accertare in concreto quali siano le condizioni per il rilascio di Moro». Nel lungo incontro, viene respinta una proposta avanzata da amici politici di Moro per la convocazione immediata di un Consiglio nazionale del partito. Fanfani, durante la riunione, ha una lunga telefonata con Eleonora Moro.
21 aprile
Editoriale di Scalfari su «la Repubblica», dal titolo Sacrificare un uomo o perdere lo Stato, che si conclude dicendo «purtroppo, per i democratici la scelta non consente dubbi». L’ex presidente della Repubblica, Saragat, si dichiara decisamente per lo scambio; dice che: «Occorre uno sforzo di fantasia». Seduta del Consiglio dei ministri dedicata al terrorismo e ai mezzi per combatterlo. Cossiga informa Zaccagnini dei contenuti della lettera di Moro e ribadisce l’impossibilità di coinvolgere in una trattativa qualsiasi organo dello Stato; accenna alle iniziative private della famiglia e riporta qualche perplessità sull’autenticità dell’ultima foto. Forlani, ministro degli Esteri, informa degli sviluppi di collaborazione europea nella lotta al terrorismo. Infine, sono approvati tre disegni di legge con miglioramenti economici alle forze di polizia e stanziamenti per l’ammodernamento. Anche l’indennità per la polizia penitenziaria viene aumentata e si destinano 600 miliardi per la costruzione di 18.000 alloggi per i poliziotti più direttamente impegnati contro la criminalità e il terrorismo. Monsignor Casaroli, della Segreteria di Stato del Vaticano, visita Andreotti. Gli comunica che Paolo VI intende inviare al presidente Leone, senza alcun commento, la lettera che Moro gli ha scritto, in cui lo prega di intervenire presso il governo per accettare uno scambio di prigionieri. Andreotti insiste sui limiti invalicabili dell’azione di Stato. Poi preannuncia a Leone l’arrivo della lettera, lasciandolo turbato. Viene diramato un comunicato ufficiale dei collaboratori di Moro: «La famiglia e gli amici rinnovano la ferma richiesta che venga salvata la vita di Aldo Moro rivolta ieri dalla signora Eleonora Moro alla Democrazia cristiana e al governo. Essi chiedono che la Democrazia cristiana, assumendo un atteggiamento realistico, dichiari la propria disponibilità ad accertare quali siano in concreto le condizioni per il rilascio del suo presidente». Anche all’Onu c’è interessamento sul caso Moro. Un appello personale ai brigatisti perché lo rilascino «sano e salvo» viene rivolto da Kurt Waldheim, segretario generale. Il presidente del Consiglio di Sicurezza, l’americano Young, ha convocato il giorno prima i membri del Consiglio per consultazioni su un «tema umanitario». Si ritiene intenda anch’esso lanciare un appello mondiale. «Le Br sono i nostri antagonisti diretti, sostenitori di un’opzione alternativa nella sinistra». Questa deve essere proprio una considerazione ossessiva nel comportamento dei comunisti. Alla giornata inaugurale del Congresso della Federazione giovanile comunista, dopo la relazione di Massimo D’Alema, il direttore di «Città futura», Ferdinando Adornato, ha detto nel suo intervento: «…Non possiamo limitarci a subire di riflesso, passivamente, l’eco della tragedia dell’onorevole Moro. Vogliamo dire che i giovani comunisti sono perché non si tratti con gli assassini delle Br». Dopo l’incontro della segreteria unitaria dei sindacati, Lama critica aspramente i sindacalisti che hanno aderito all’appello di «Lotta Continua». Sono i socialisti della Cgil, Marianetti e Didò, della Cisl Crea e della Uil Mattina; ma hanno firmato anche il cattolico Bentivoglio della Cisl e un altro dirigente della Cgil e militante del PdUP, Giovannini. Trentin si dichiara decisamente contrario a qualsiasi ipotesi di trattativa. La Direzione della Dc riprende nel pomeriggio. A sera, viene diffuso un documento in cui «si riafferma la propria indefettibile fedeltà allo Stato». La Direzione socialista approva un comunicato, votato all’unanimità, in cui si dice che «ciò che si può fare, o agevolare ai fini della liberazione di Aldo Moro, deve essere fatto o agevolato». Nel documento c’è una linea polemica verso l’atteggiamento del Pci e degli altri partiti di maggioranza. E proprio a Botteghe Oscure è tesa l’aspettativa riguardo ai socialisti. Berlinguer è molto preoccupato per la sorte di Moro, per gli effetti politici delle possibili divisioni nella maggioranza e per la strategia generale del partito. Clima acceso all’Alfa Romeo di Milano per l’accordo firmato dai sindacati, senza l’approvazione dell’assemblea generale, sugli otto sabati di straordinario. Dopo le contrapposizioni nelle assemblee di reparto svoltesi in questa giornata, si preannunciano picchetti per il giorno dopo.
22 aprile
Oggi alle 15.00 scade l’ultimatum delle Br. Esce, in edizione anticipata, l’«Osservatore Romano» con un appello di Paolo VI: «Io scrivo a voi, uomini delle Br… e vi prego in ginocchio, liberate l’onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni». Il papa vi ha lavorato durante la notte ma, in qualche modo, il testo risente di una cautela «di Stato». Ripetute dalla radio vaticana più volte durante il giorno e in diverse lingue, le parole, nobili e cristiane, sono senza impatto. È la prima impressione che ne ricava Eleonora Moro ed è la stessa sensazione che colpisce Aldo Moro. Le Br ne prendono atto. Valerio Morucci e Adriana Faranda, dirigenti della colonna romana delle Brigate rosse, si incontrano con Lanfranco Pace, ex leader di Potere operaio, organizzazione in cui hanno militato insieme. I due brigatisti temono la piega obbligata degli avvenimenti. Pace, per conto suo, riflette la sensazione comune del movimento: l’uccisione di Moro è una tragedia da evitare. Inoltre, contatti con i socialisti lo spingono a tentare di allargare gli spazi di trattativa. Si parla di un incontro tra l’avvocato Guiso e monsignor Bettazzi, vescovo di Ivrea tra i firmatari dell’appello di «Lotta Continua». In-tanto l’avvocato Spazzali, dopo un colloquio alle Nuove, carcere di Torino, con i brigatisti detenuti, riporta ai giornalisti l’atteggiamento dei suoi assistiti: «Non fanno commenti e aspettano l’evolversi della situazione». Il Comitato esecutivo del sindacato di polizia aderente a Cgil-Cisl-Uil ha inviato un documento al governo in cui si schiera contro ogni ipotesi di trattativa. Di tutt’altro parere è Franco Fedeli, direttore della rivista «Nuova polizia», forse colui che ha condotto più incisivamente la battaglia per un sindacato democratico. Intanto, un folto gruppo di giudici, quasi tutti aderenti a Magistratura democratica firmano un documento in cui si chiede che «vengano prese immediate e idonee misure» per la trattativa. L’onorevole democristiano Rosati scrive a Zaccagnini perché la Dc sia più decisa nel verificare le condizioni per salvare Moro senza incrinare le istituzioni. La lettera è sottoscritta da un nutrito numero di deputati e senatori Dc, tra cui l’ex presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi. Ancora un articolo di Zincone, sul «Corriere della Sera», a proposito delle reazioni nell’estrema sinistra. Radio Città Futura racconta di centinaia di telefonate in studio preoccupate per l’imbarbarimento dello scontro politico. Tavani, per Radio Onda Rossa, si dice decisamente favorevole alla trattativa. Più variegato il riflesso di posizioni dei lettori sulla redazione di «Lotta Continua». Il giornale si batte con forza per la salvezza di Moro. Gad Lerner dice sinteticamente: «Siamo contro il fermo di polizia e siamo anche contro il fermo di Br». Ma l’area di Lotta continua sta un po’ facendo i conti con buona parte della propria storia di gruppo. A Milano solo pochi operai si sono presentati ai cancelli dell’Alfa Romeo per lavorare al sabato di straordinario. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha deciso di non lanciare un appello ufficiale per Moro, poiché, a parte la dubbia efficacia, darebbe «legittimità internazionale» alle Br. Scade l’ultimatum, ma non arriva alcuna notizia.
23 aprile
«Di Aldo Moro nessun’altra notizia… Abbiamo trepidato ieri alla scadenza dell’ora fissata» dice Paolo VI all’Angelus domenicale. Berlinguer conclude il Congresso della Fgci ribadendo la politica della fermezza perché «cedendo al ricatto, si arriverebbe alla guerra civile», e propone ai giovani militanti una «mobilitazione straordinaria» in difesa della democrazia. A piazza del Gesù si vivono ore d’ansia e d’attesa. Quando, in mattinata, arriva Fanfani, c’è agitazione tra i giornalisti. Più tardi, in sala stampa, Zaccagnini dichiara: «Noi abbiamo individuato uno strumento per ottenere una risposta agli interrogativi sulla sorte di Moro… ma fino a questo momento non ha fatto riscontro alcun segnale». Lo «strumento» di cui parla è la Caritas, che ha intanto attivato un telefono 24 ore su 24 perché le Br inviino un segnale che risponda alla disponibilità di intermediazione esplicitata dall’organizzazione umanitaria. Ma finora il telefono è stato solo preso d’assalto da centinaia di mitomani. L’Esecutivo delle Br, Moretti, Micaletto, Azzolini e Bonisoli, ha deciso di non dare corso all’ultimatum e di inviare un nuovo comunicato. Anche Moro ha deciso di scrivere un’altra lettera a Zaccagnini e una a Waldheim. Azione di Prima linea a Firenze per disarmare un agente di polizia ferroviaria. Pochi giorni prima, la stessa organizzazione aveva firmato un attentato incendiario ai danni dell’Unione Commercianti della città. A Milano, bottiglie molotov sono state lanciate contro cinque concessionarie dell’Alfa Romeo.
24 aprile
Il presidente del Consiglio di Sicurezza Onu, l’americano Young, rivolge un appello personale perché Moro sia liberato. Il governo di Panama dichiara intanto la propria disponibilità ad accogliere i terroristi eventualmente liberati. Le Br fanno ritrovare il comunicato n. 8. Insieme c’è una lettera di Moro al segretario democristiano. Le Br considerano dilatorie e oscure le risposte della Dc a quanto finora da loro richiesto ed esplicitato ora con maggiore chiarezza. È la Democrazia cristiana il loro unico interlocutore: «La Dc e il suo governo hanno la possibilità di ottenere la sospensione della sentenza del Tribunale del Po-polo e il rilascio di Aldo Moro solo liberando i prigionieri comunisti». Segue un elenco di tredici detenuti, dal «nucleo storico» dei Nap e della XXII Ottobre a «proletari prigionieri» politicizzatisi in carcere fino a Piancone, ferito durante l’uccisione della guardia Cotugno a Torino l’11 aprile precedente. Per sostanziare la determinazione ultimativa del comunicato, con riferimento al sequestro Sossi, si dice, «questa volta la soluzione non sarà analoga». Nella sua lettera, Moro si rivolge a Zaccagnini ma intende parlare a tutti i componenti della Direzione Dc. «È alla Dc che bisogna guar-dare» scrive. La lettera è piena d’amarezza ormai disperata. Ma non viene mai meno a una puntuale lucidità: «Dev’esser chiaro che politicamente il tema non è quello della pietà umana… ma dello scambio di alcuni prigionieri». Moro non si riconosce più nel suo partito, in questa inerzia dove non ci sono più «intelligenti sottigliezze, robuste argomentazioni, sintesi politica». Per questa «evidente incompatibilità», conclude, vuole che ai suoi funerali non partecipino né autorità dello Stato né uomini di partito. A mezzogiorno circa il testo del comunicato è sui tavoli di tutte le segreterie di partito. A piazza del Gesù si decide di non tenere alcun incontro. Nessuna riunione. Cavina, segretario di Zaccagnini, scende in sala stampa per dire: «Non abbiamo niente di nuovo da deliberare; le decisioni della segreteria rimangono valide». E Galloni: «L’ipotesi indicata era stata già prospettata e respinta». Anche i socialisti sembrano perentori di fronte alle richieste del comunicato Br. Quattro righe secche arrivano dalla segreteria socialista di via del Corso: «La Direzione ha già espresso la sua opinione contraria a uno scambio di prigionieri». Il presidente della Caritas Internationalis, che i brigatisti non considerano attendibile interlocutore a meno di un formale incarico a trattare da parte della Dc, dichiara: «Il papa nel suo appello agli uomini delle Br ha semplicemente chiesto la liberazione di Moro senza condizioni. Noi siamo sulla stessa linea». I comunisti non rilasciano alcuna dichiarazione ufficiale. Il partito è impegnato nella preparazione della ricorrenza del 25 aprile. La rivendicazione del patrimonio della Resistenza si configura come fronte nazionale contro il «nuovo fascismo». Alla Resistenza si richiama anche Zaccagnini in brevi conversazioni con i suoi collaboratori; lo si racconta duramente provato dai richiami di Moro a lui direttamente rivolti. A palazzo Chigi riunione del Comitato Interministeriale per la Sicurezza, a conclusione del quale il governo dichiara che «le richieste di scambio erano e sono inaccettabili… la valutazione del governo è conforme a quella espressa dal Parlamento». Proprio alla Camera, il presidente Ingrao aveva tolto la parola a Pannella che avrebbe voluto discutere del comunicato brigatista. Monsignor Casaroli telefona ad Andreotti, chiedendogli di inviargli per iscritto le considerazioni da lui svolte sui limiti necessari all’azione del Papa rispetto allo Stato. A casa della famiglia Moro sono convenuti tutti i collaboratori del presidente Dc, che continuano a fare la spola tra piazza del Gesù e via del Forte Trionfale. Si discute se fare una dichiarazione ulteriore dopo l’arrivo del comunicato n. 8 e della lettera di Moro, ma si decide di aspettare. Freato e Rana vanno a palazzo Chigi, dove invano tenteranno di parlare con Andreotti, e Guerzoni va alla sede Dc. Eleonora Moro, dopo la dichiarazione del presidente della Caritas, si fa accompagnare in automobile alla sede dell’organizzazione. A tarda sera, convergono nuovamente tutti a via del Forte Trionfale.
25 aprile
I figli di Moro scrivono al padre un messaggio pubblicato su «il Giorno»: «Caro papà, sentiamo il bisogno, dopo tanti giorni, di farti giungere, con queste poche righe, un segno del nostro affetto». È il trentatreesimo anniversario della Liberazione. I sindacati, il Pci e la Dc si impegnano in una mobilitazione straordinaria. Quarantamila in piazza del Duomo a Milano, trentamila a Venezia, migliaia a Bologna, Firenze e in tutt’Italia. Bandiere democristiane, per la prima volta in maniera così massiccia, si uniscono a quelle dei partigiani comunisti e socialisti.
A via Fani, a Roma, i giovani comunisti e la Cisl indicono un appuntamento aperto da uno striscione in cui si legge «No al ricatto terrorista». Dappertutto i comizi intrecciano l’anniversario della Liberazione alla lotta contro il terrorismo. Lama, a Venezia, definisce le Br «una banda di assassini con cui non si tratta». A Milano, dove è con Luigi Longo, Gian Carlo Pajetta polemizza dal palco contro chi dice «né con lo Stato né con le Br, perché danno una mano ai brigatisti». A Roma, alla manifestazione indetta dal movimento, alla cui coda sfila Autonomia, ci sono state violentissime cariche della polizia. Nel pomeriggio, scontri nel quartiere San Lorenzo tra militanti autonomi e iscritti alla locale sezione del Pci. Il segretario dell’Onu, Waldheim, interviene con un appello via satellite, in cui chiede il rilascio di Moro: «Tale atto di pietà sarà ricevuto con un senso di sollievo da tutto il mondo». Un portavoce delle Nazioni Unite precisa che l’iniziativa di Waldheim è a titolo personale. Qualcuno suppone sia stata sollecitata dai socialisti, anche per conto della famiglia. Vengono diramati i primi nove ordini di cattura emessi dalla magistratura nei confronti dei brigatisti che si ritiene abbiano organizzato l’agguato di via Fani. Le foto dei ricercati saranno stampate in
20.000 copie. Craxi riunisce a via del Corso il gruppo di politici, giuristi e avvocati a cui ha dato mandato di esplorare possibili iniziative. Il gruppo, riunito attorno a Vassalli, citato dallo stesso Moro in una lettera ricordando l’intervento di Pio XII per salvarlo dai nazisti, presenta le ipotesi elaborate. Alla fine dell’incontro, viene diffuso il testo di un articolo, scritto dal segretario socialista per «l’Avanti» del giorno dopo: «Lo Stato può valutare se esiste la possibilità di un’iniziativa autonoma che sia fondata su ragioni umanitarie». Anche La Malfa distribuisce ai giornalisti il testo del suo commento per la «Voce Repubblicana» dell’indomani. L’iniziativa delle Br viene definita come tentativo di rompere la coalizione di maggioranza, di provocare la crisi di governo e risospingere il Pci all’opposizione. Il contrario, cioè, del disegno politico di Moro. La Malfa conclude chiedendosi «se dietro le Br non vi sia un interesse più vasto». Nella sede di piazza del Gesù viene distribuito un documento firmato da una cinquantina di persone che si definiscono «amici di vecchia data di Moro» e assicurano solennemente che l’uomo che scrive quelle lettere e chiede di essere liberato non è lo stesso a cui sono stati lungamente vicini: «Non è l’uomo che conosciamo con la sua visione spirituale, politica e giuridica». Monsignor Macchi visita Andreotti. Vengono valutate diverse ipotesi, tra cui un riscatto in denaro e la liberazione di un detenuto in carceri straniere, forse un cileno. Ma sulla concreta liberazione di uno o due detenuti, presentata come possibile richiesta di Eleonora Moro direttamente a Leone, Andreotti mostra la solita durezza.
26 aprile
Girolamo Mechelli, membro del Consiglio nazionale della Dc e capogruppo alla Regione Lazio, viene ferito, sotto casa, a Roma, da sei proiettili sparatigli alle gambe. La macchina con cui sono fuggiti gli attentatori è stata ritrovata a qualche centinaio di metri dal luogo dell’agguato. Anche la notte prima sono stati fatti diversi attentati contro sedi della Dc, a Milano, Nuoro e Parma. Zaccagnini si incontra con Craxi per capire quali siano in concreto le possibili iniziative a cui il segretario socialista fa riferimento e che ha probabilmente elaborato insieme al suo gruppo di giuristi. Le indicazioni di Craxi vertono sul riesame della situazione delle «carceri speciali», adesso sotto il controllo del generale dalla Chiesa, e su provvedimenti di grazia a favore di alcuni detenuti brigatisti, per le loro condizioni di salute. Dopo aver visto Craxi, Zaccagnini consulta telefonicamente altri leader Dc ed esponenti della maggioranza. Poi, si incontra con alcuni suoi collaboratori. In serata, dopo una riunione a piazza del Gesù, Piccoli dichiara: «La nostra linea rimane immutata». Il vicesegretario socialista Signorile è intervistato dalla «Repubblica»: «Con questo allucinante attendere la notizia dell’assassinio di Moro, con questo immobilismo, non abbiamo sfruttato le “due linee” che chiaramente esistono all’interno delle Br». Signorile, che nell’intervista ritorna sulla possibilità di iniziative, ha incontrato Piperno e Pace, entrambi ex leader di Potere Operaio, i quali hanno insistito sulla necessità di dare presto segnali di concreta disponibilità. Fanfani ha fatto visita a Eleonora Moro; un colloquio di circa mezz’ora. Intanto si registrano reazioni durissime all’appello di Waldheim. Viene considerato una sorta di «ufficilizzazione» delle Br, qualcosa cui accenna subito l’avvocato Guiso, da Torino, parlando di un «riconoscimento politico». Ed è, simmetricamente, la posizione anonima di un diplomatico della Farnesina: «È quanto mai inopportuno… così non ci si rivolge a un gruppo di criminali, ma solo a un governo». I comunisti e i repubblicani considerano ambigue e pericolose le parole di Waldheim, laddove suonano come la constatazione di due «parti combattenti». I repubblicani mandano addirittura un telegramma durissimo all’Onu e si oppongono decisamente a un invito al segretario dell’Onu, ventilato da parte socialista, perché venga subito in Italia. Berlinguer e La Malfa chiedono ad Andreotti se in qualche modo il governo fosse stato consultato in merito, ma il presidente del Consiglio assicura di no. Al processo di Torino, ricominciato oggi, c’è attesa per una qualche dichiarazione del «nucleo storico» delle Br a proposito dell’ultimo comunicato in cui viene chiesta la liberazione di tredici detenuti. Ma nessuno di loro si pronuncia. Parla invece l’avvocato Spazzali, che considera «positivo» l’intervento di Waldheim. Steve Pieczenik, che ha fatto parte del gruppo di esperti del ministro degli Interni, rilascia una dichiarazione dagli Stati Uniti, dove è tornato da poco: «poiché l’obiettivo evidente dei terroristi era ed è destabilizzare lo Stato italiano, è stato estremamente importante rispondere facendo chiaramente comprendere che se l’onorevole Moro è una figura essenziale della democrazia italiana, tuttavia nessuno è indispensabile». Moro legge la lettera dei suoi cari, e riprende a scrivere.
27 aprile
A Torino, di mattina presto, sparano alle gambe di Sergio Palmieri, dirigente Fiat. Gli attentatori, tre uomini e una donna, fuggono su una Fiat 128 ritrovata poco lontano. A sparare è stata la donna. Palmieri è l’undicesimo dipendente Fiat colpito in tre anni. Poco dopo l’attentato, una telefonata rivendica alle Br il ferimento. Al processo di Torino, Curcio, rompendo un silenzio di giorni, fa un intervento polemico contro la sospensione dei colloqui coi familiari e le condizioni limitative cui sono sottoposti i detenuti. Aggiunge che una di queste limitazioni era stata improvvisamente sospesa «per una persona». Chiede che questa eccezionalità diventi norma. Si saprà subito che la «persona» è Franca Rame, che ha ottenuto un colloquio senza vetri con Curcio, chiedendogli di intervenire per salvare la vita di Moro. Polemiche dichiarazioni di repubblicani, socialdemocratici, democristiani e comunisti contro le ipotesi di Craxi di offrire la grazia a qualche terrorista. Considerazioni politiche sulla possibile rottura della coalizione di maggioranza si intrecciano a quelle strategiche sull’apertura di una catena di ricatti e a quelle dietrologiche sui reali interessi all’indebolimento del nostro paese. La segreteria democristiana ha diramato una circolare, intimando a tutti i dirigenti di non rilasciare dichiarazioni «data la delicatezza del momento». L’Olp, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina guidata da Arafat, definisce provocatorie «le notizie comparse sulla stampa, circa un presunto collegamento tra le Br e i palestinesi» e si unisce a quanti in Italia e nel mondo ne chiedono il rilascio. Proprio sulle iniziative internazionali continua a muoversi Giancarlo Quaranta, leader di Febbraio ’74, affiancando la famiglia Moro che, di per sé, cerca di contattare un personaggio internazionale e autorevole come Tito. Quaranta ha interpellato la Croce Rossa Internazionale, per conoscerne la disponibilità alla mediazione, cercando anche una giustificazione giuridica sulla base di trattati internazionali che regolano la materia dei conflitti interni. E verso la Croce Rossa si era mosso Cottafavi, diplomatico e amico di Moro, da lui stesso sollecitato, con un biglietto mandato a uno dei suoi collaboratori, attraverso le Br. Per il governo, Andreotti fa sapere di essere decisamente contrario: l’intervento della Croce Rossa significherebbe un «riconoscimento internazionale di parti belligeranti». Le Br continuano a es-sere, giuridicamente, solo criminali. Così, il presidente della Croce Rossa, Haj, dichiara che, non ricorrendo le condizioni previste dalla Convenzione di Ginevra, la sua organizzazione può rivolgere alle Br un appello umanitario, qualcosa di molto simile a quanto già fatto dal Papa, da Amnesty e dalla Caritas. Trentuno intellettuali laici, comunisti e firme importanti della cultura italiana, sottoscrivono un appello «in difesa intransigente delle istituzioni e delle leggi dello Stato democratico». Il settimanale «l’Espresso» pubblica un sondaggio sulle opinioni degli italiani riguardo la trattativa: una buona percentuale la accetterebbe, purché non impegni direttamente il governo. Moro manda molte altre lettere.
28 aprile
Craxi rilascia un’intervista in cui sottolinea di nuovo che quelle dei socialisti non sono proposte specifiche: «Ci sono detenuti verso i quali si può manifestare la clemenza dello Stato». Quali e come, questo spetterebbe alla magistratura. «Il governo potrebbe dichiarare di accettare qualsiasi indagine sul trattamento nelle carceri speciali da parte di organismi internazionali come Amnesty» suggerisce. Il «New York Times» dà notizia che il governo italiano avrebbe chiesto aiuto a quello americano per cercare di determinare l’eventuale esistenza di una presenza straniera nel rapimento Moro. L’attenzione si rivolge in particolare alla Cecoslovacchia. Assemblea nel grande capannone Fiat Spa Stura di Torino con cinquemila operai e Bruno Trentin dopo l’attentato del giorno prima al dirigente Palmieri. Gli interventi passano da frasi come «le Br non ci rappresenteranno mai», ad altre del tipo «queste istituzioni non meritano il nostro appoggio». L’istruttoria su via Fani verrà formalizzata martedì prossimo. A gestirla sarà il consigliere istruttore Gallucci, forse affiancato da Ferdinando Imposimato. Si prevede che presto verranno spiccati altri ordini di cattura. Molte prove, appunti a mano, riconoscimenti, impronte e risultanze delle perizie sulle armi, sembrano venire dal ritrovamento di via Gradoli. Gli inquirenti, inoltre, sono certi che altre prove possano essere fornite dagli arresti effettuati nel Centro-Sud. Ma in procura si denota insofferenza verso la linea della trattativa: «Ostacola l’indagine». Conferenza stampa televisiva del presidente del Consiglio. È il sigillo definitivo al rifiuto del governo a trattare con le Br. «Chi ha responsabilità di governo giura di rispettare e far rispettare le leggi, questo è un limite che nessuno di noi ha il diritto di valicare». Andreotti ha aggiunto: «Lo Stato è qualcosa che sta al di sopra di noi».
29 aprile
«Il Messaggero» pubblica una lettera di Moro alla Dc, giunta attraverso i collaboratori del presidente Dc, che hanno distribuito, in realtà prendendolo da casa Moro, un vero e proprio blocco di missive. I destinatari sono Craxi, Piccoli, Fanfani, Andreotti, Misasi, Leone, Ingrao, Pennacchini, Ancora, Dell’Andro. Altre non sono invece arrivate. Nella lettera al partito, di cui ha preparato più versioni, Moro scrive: «È vero, io sono prigioniero e non sono in uno stato d’animo lieto… Perché questo avallo alla pretesa mia non autenticità? Ma tra le Br e me non c’è la minima comunanza di vedute». Poi ritorna sulla questione dello scambio, di cui rammenta un episodio ben chiaro agli uomini dello Stato, quello dei palestinesi. «Da che cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina, se, una volta tanto, un innocente sopravvive e, a compenso, altra persona va, invece che in prigionia, in esilio? Il discorso è tutto qui». Moro «sente» l’immobilità del suo partito e quella dei suoi stessi amici di corrente, troppo unanimismo e pochi dissensi. Tenta un paradosso d’autorità: «Io ho il potere di convocare per data conveniente e urgente il Consiglio nazionale». Nella lettera a Craxi, del quale ha letto le iniziative e le proposte, Moro cerca di aggiustare il tiro: non bisogna «compiere atti umanitari, ma dar luogo a una seria ed equilibrata trattativa per lo scambio di prigionieri politici». Ad Andreotti si rivolge direttamente: «So bene che ormai il problema è nelle tue mani e che tu ne porti altissime responsabilità… che Iddio ti illumini e ti faccia tramite dell’unica cosa che conti per me, non la carriera cioè, ma la famiglia». L’iniziativa politica di Moro è ad ampio raggio, verso le più alte cariche dello Stato e verso i partiti. Brevi e formali le lettere a Leone, a Fanfani e a Ingrao. A Dell’Andro chiede di rivolgersi a quanti erano contrari alla sua linea aperturista, ad Ancora di spiegare ai comunisti il suo punto di vista, a Pennacchini, che è sottosegretario alla Giustizia, di ricordarsi dei palestinesi, a Misasi di non insistere con le invocazioni umanitarie ma di dar battaglia politica. In questa e quella lettera accenna direttamente ai comunisti, al suo sforzo per portarli nella maggioranza, alla possibilità di mutare il quadro politico di riferimento. La sua battaglia politica è quasi giunta alla fine. Ed è più chiaro nel biglietto alla moglie, cui è accluso tutto il resto: «Come ultimo tentativo fa una protesta e una preghiera con tutto il fiato che hai in gola, senza sentire i consigli di prudenza di chicchessia». A piazza del Gesù si crea agitazione, ed è soprattutto la questione dell’indizione del Consiglio nazionale a stimolare risposte da parte dei vari leader che arrivano per incontrarsi nello studio di Zaccagnini. Il Consiglio si terrà dopo una decina di giorni, non prima. È l’unica decisione della giornata. Ai giornalisti che l’aspettano, Andreotti, uscendo, dice: «Noi passiamo ogni sera solitamente da Zaccagnini per vedere se ci sono novità e oggi non ce ne sono».
«Non ci sono elementi tali da spingere il Pci a convocare delle riunioni e a prendere nuove decisioni dette e ribadite nelle precedenti», questa la dichiarazione proveniente da Botteghe Oscure. Qui, Berlinguer ha incontrato Tullio Ancora, incaricato da Aldo Moro, a cui ha ribadito le posizioni di intransigente fermezza. D’altronde i comunisti sono impegnatissimi nella seduta fiume in commissione Giustizia, presieduta da Misasi, per proseguire rapidamente l’esame della nuova normativa sull’ordine pubblico, contro cui radicali e missini applicano l’ostruzionismo. «l’Unità» riporta che «il gruppo comunista è impegnato 24 ore su 24 con presenza in aula, per ciascuno 8 ore di riposo e obbligo di immediata reperibilità».
30 aprile
Giuliano Vassalli, che guida il gruppo di giuristi incaricato da Craxi, si reca al Quirinale per consegnare al presidente Leone il «documento di lavoro» socialista che specifica le linee generali su cui lo Stato può autonomamente intervenire. Per le carceri speciali si suggerisce di togliere i vetri blindati dai colloqui, di intensificare le ore di visita per i familiari e di aumentare le ore d’aria per i detenuti. In riferimento alla concessione della grazia o della libertà provvisoria per alcuni terroristi, che non sono colpevoli di gravissimi reati, Vassalli ha con sé un elenco di nomi. A stilarlo ha collaborato anche Vincenzo Siniscalchi, avvocato difensore in alcuni processi ai Nap. L’attenzione si circoscrive attorno ai nomi di Paola Besuschio, militante Br della prima ora, e Alberto Buonoconto, napoletano dei Nap. Entrambi non godono di buona salute. Vassalli farà in modo che le proposte socialiste arrivino anche al presidente del Senato, Fanfani. Nella direzione di colonna romana le perplessità di Morucci e Faranda hanno preso consistenza. Moretti telefona a casa Moro. La telefonata è lunga quindi rischiosa; oltre che «un puro scrupolo», suona come un estremo tentativo di trovare una soluzione. La famiglia si sta battendo come può per la trattativa, soprattutto con i democristiani. Moretti insiste: «Finora avete fatto soltanto cose che non servono assolutamente a niente… quindi chiediamo solo questo: che sia possibile l’intervento di Zaccagnini, immediato e chiarificatore». Eleonora Moro e il figlio Giovanni si mettono immediatamente in contatto con Zaccagnini, con Leone e riprendono il giro delle loro relazioni. Il giorno precedente era stato diffuso un appello, firmato da un gruppo di giuristi, rivolto al governo italiano «perché chieda l’intervento della Croce Rossa Internazionale». Un portavoce della Croce Rossa fa subito sapere che servirebbe, per qualsiasi iniziativa, il «consenso di ambe le parti». Sembra così impossibile, sul piano formale, fare qualcosa. La stessa Amnesty descrive la situazione come qualcosa che esula dalle specifiche competenze che l’organizzazione ha per statuto. A livello dei capi di Stato, intanto, Tito s’è messo in contatto con Gheddafi e Boumedien. È l’area del Sud del mondo, quella a cui la politica di Moro era stata attenta. Nel tardo pomeriggio, quando sembra ormai evidente che nulla verrà intrapreso, la famiglia Moro decide la rottura eclatante e scrive una lettera pubblica alla Dc: «…ritiene che l’atteggiamento della Dc sia del tutto insufficiente a salvare la vita di Moro… con il loro comportamento ratificano la condanna a morte». Piperno e Pace incontrano nuovamente Signorile e spingono perché sia fatto presto qualcosa che serva a rinviare i termini di una scadenza che a tutti sembra ormai vicina. Qualcosa che possa almeno pesare sulla determinazione brigatista, costringerla a misurarsi con un’iniziativa politica, creare difficoltà a una decisione che appare lineare, offrire una sponda a qualche valutazione di ripensamento interno alle Br. Rigoroso riserbo del Vaticano sulla vicenda Moro, soprattutto dopo la delusione del presidente democristiano per quell’appello del Papa a liberarlo «senza condizioni». Paolo VI oggi ha invitato tutti a tenere viva la speranza e a invocare la Vergine. Su «l’Osservatore Romano» del giorno prima, padre di Rovisenda, tra i firmatari della lettera in cui «gli amici di lunga data» di Moro sostenevano di non riconoscerlo più, diceva: «È dovere dell’uomo politico difendere la persona umana, una dottrina che Moro ha sempre professato. Ma nella sua temporalità è subordinata al bene comune di tutta la società. Egli non vuole certamente la sua liberazione buttando allo sbaraglio lo Stato». A tarda sera, monsignor Macchi visita Andreotti e lo informa di avere fatto correre la notizia di una disponibilità vaticana a corrispondere un forte riscatto in denaro per la liberazione di Moro. Zaccagnini convoca tutto il vertice democristiano, ma nulla viene modificato delle decisioni già assunte. Si decidono incontri con socialisti e comunisti. C’è inoltre da preparare la campagna per le elezioni amministrative che si terranno dopo due settimane e coinvolgeranno almeno quattro milioni di elettori. Attentati, la notte precedente, contro l’Alfa Romeo a Roma, Torino, Padova e Napoli, con ordigni esplosivi o incendiari. Sabato, per gli straordinari, sono entrati in fabbrica, a Milano, duemilaottocento operai. Fin dalle prime ore del mattino il Consiglio di fabbrica al completo s’è schierato davanti ai cancelli dell’Alfa. Scontri con gruppi di Autonomia e Lotta Continua. I comunisti e i sindacati preparano la scadenza del Primo maggio. Il mondo del lavoro si leva a baluardo della democrazia e rilancia l’esigenza di riformare la società e lo Stato, così titola «l’Unità».
1 maggio
Grandi manifestazioni sindacali per la ricorrenza del Primo Maggio, festa del lavoro. In tutti i comizi la vicenda Moro assume centralità. Lama in piazza San Carlo a Torino, davanti a cinquantamila persone, dice che «la lotta del sindacato si svolge su due fronti: quello del terrorismo e quello della svolta economica». Macario, segretario generale Cisl, spera in una soluzione pacifica del sequestro Moro e si pronuncia contro l’eventuale ricorso a leggi eccezionali. A Taranto, città che sta vivendo un ridimensionamento dell’occupazione operaia, Bruno Trentin parla dal palco assieme al maresciallo della squadra mobile. A Roma Arrigo Boldrini, presidente dell’Associazione nazionale dei partigiani, sottolinea il valore della fermezza in piazza San Giovanni, gremita di folla. E aggiunge: «Quando sento parlare di “capi storici” delle Br, mi ribello. I “capi storici” sono quelli che hanno condotto la guerra di liberazione. Questi delle Br sono solo personaggi squallidi di cronaca nera». Carniti, per la Cisl, oltre a far rilevare l’importanza della reazione operaia nella lotta al terrorismo, mette in guardia il sindacato dalla tentazione di «surrogare lo Stato» che potrebbe restringere gli spazi di vita democratica. A Milano, Benvenuto, segretario della Uil, ha detto che «la lotta al terrorismo deve essere legata a obiettivi di risanamento e di riforma». Dopo il comizio scontri tra sinistra extraparlamentare e militanti democristiani. La polizia è intervenuta subito. Zaccagnini incontra Craxi in mattinata e si riconvocano per l’indomani. Nel pomeriggio si reca a Botteghe Oscure per vedere Berlinguer, che alla fine dell’incontro, dice: «Non vedo perché la posizione della maggioranza e del governo dovrebbe venire modificata rispetto all’ultimatum delle Br». Infine, il segretario democristiano convoca la delegazione Dc nel suo studio, chiedendo anche la presenza di Andreotti. Intanto Berlinguer e Natta vanno da Andreotti, a cui dicono di temere iniziative destabilizzanti per il governo. Si parla anche delle indagini e dei possibili motivi che ne impediscono qualche risultato. Alla riunione della delegazione democristiana si decide solo di aspettare. Non ci sono iniziative da prendere. L’indaffaramento di Zaccagnini alla ricerca di spiragli, pur confortato dalle parole di Craxi, si è subito scontrato con una doppia freddezza. Craxi, dopo aver visto Freato, tiene una riunione con gli avvocati Guiso e Magnani Noya. Guiso, che viene da Torino, delinea lo scenario di scambio tra «prigionieri di guerra». Considerando impercorribile la richiesta brigatista del rilascio di tredici detenuti, crede che «riducendo il numero acquista importanza la qualità». Questa «qualità» la intravede in Paola Besuschio, detenuta brigatista che peraltro figura nell’elenco del comunicato n. 8 delle Br. Le sue condizioni di salute la configurano come «un caso veramente umanitario». Anche la Magnani Noya ne è convinta.
2 maggio
Il processo Lockheed riprende l’avvio regolarmente. Piovono alcune eccezioni della difesa con l’evidente obiettivo di ritardare il corso del dibattimento, ma vengono respinte. Il Pubblico ministero anzi ha richiesto la contestazione di alcune aggravanti. Il fascicolo dell’inchiesta Moro passa nelle mani della procura generale di Roma. La decisione pone diversi interrogativi sulla consistenza delle indagini, sui metodi seguiti, sulla necessità di coordinamento con altre procure. Sul probabile allargamento dell’inchiesta, l’iniziativa lascia intravedere come esigenza dei magistrati una sorta di «copertura politica», soprattutto dopo le polemiche seguite alla «retata» del 3 aprile. Di mattina presto, Craxi vede Andreotti al quale espone le sue proposte, che si concentrano sulla liberazione della Besuschio. Teme sia la possibilità che Moro venga ucciso presto sia un’eventuale reazione di vendetta. Propone di evitare qualsiasi dibattito parlamentare e, più che mai, una votazione sulla trattativa. Considera necessario evitare un gran clamore sulla stampa. A Craxi, Andreotti obietta che la Besuschio ha altre condanne e chiede quale elemento di certezza vi sia in merito al fatto che graziando lei le Br rilascino Moro.
Poi, Craxi incontra Berlinguer nel palazzo dove hanno sede i gruppi parlamentari. L’incontro è gelido, e si rileva dalle dichiarazioni alla stampa di entrambi i leader: «Ci siamo scambiati le nostre opinioni. Penso che ci incontreremo ancora. Quando? Non lo so», dice Berlinguer. Anche Craxi è molto secco: «Non desidero fare dichiarazioni. Dico soltanto che ci siamo scambiati delle opinioni». Berlinguer telefona ad Andreotti. Nel tardo pomeriggio, a piazza del Gesù, l’incontro tra la delegazione socialista e il vertice democristiano durerà fin quasi mezzanotte. Zaccagnini ha intanto consultato socialdemocratici e repubblicani; gli uni e gli altri hanno definito vaghe e approssimative le proposte socialiste. Craxi illustra quella che continua a definire «una ipotesi in via umanitaria», evitando ogni considerazione sulla trattativa. Ma la delegazione democristiana respinge ogni possibilità al riguardo. Il più rigido sembra Galloni, che poi, in sala stampa, dirà: «Abbiamo ampiamente chiarito la posizione della Democrazia cristiana, ricordando i numerosi tentativi compiuti sul piano umanitario che non hanno purtroppo fin qui trovato una risposta da parte dei rapitori del presidente Moro». In realtà, all’incontro i democristiani arrivano anche con una diffidenza tutta politica. Vogliono dal segretario socialista garanzie di certezza che un’eventuale mossa dia in cambio il rilascio di Moro. E la diffidenza, tra i democristiani, è anche tutta rivolta al proprio interno, per capire chi tra loro possa far da sponda a Craxi per un nuovo quadro politico di riferimento. L’incontro finisce bruscamente, tanto che c’è chi sente il segretario socialista dire, irato: «In questa stanza qualcuno vuole Moro morto».
3 maggio
La Dc, dopo gli incontri dei giorni precedenti, rilascia un documento. Vi si dice che c’è stata una valutazione approfondita delle iniziative proposte dal Psi. Pur non volendo lasciare nulla di intentato per salvare la vita di Moro, «si deve a questo punto investire il governo, nell’esclusione di ogni trattativa e nel rispetto delle leggi». La Dc, sebbene finora gli appelli umanitari siano rimasti senza risposta, di fronte alla restituzione di Moro «saprà certamente trovare forme di generosità e di clemenza». Da palazzo Chigi, circa un’ora dopo, Andreotti risponde con una nota a nome del governo. Si dice che l’invito rivolto dalla Dc avrà seguito in una riunione del Comitato Interministeriale per la Sicurezza nei giorni successivi. E prosegue: «Si osserva tuttavia fin d’ora che è nota la linea del governo di non ipotizzare la benché minima deroga alle leggi dello Stato e di non dimenticare il dovere morale del rispetto del dolore delle famiglie delle vittime». Gian Carlo Pajetta, per i comunisti, dichiara in proposito al Gr1: «Credo si possa dare un giudizio positivo, nel senso che la Dc rifiuta di accettare compiti istituzionali che non le spettano… per quello che ci riguarda noi manteniamo la nostra posizione». Dall’interno del Psi si leva qualche voce critica sulle ipotesi del segretario. Il 2 maggio era stata la volta di Iacometti, ex partigiano e dirigente dell’Arci; oggi di Pertini, il quale dichiara che una trattativa con le Br sarebbe mortale per la democrazia. Craxi non smette di avanzare ipotesi. Adesso, dopo le difficoltà incontrate sul nome della Besuschio, l’attenzione sua e del suo gruppo di lavoro si sposta e si concentra su Buonoconto, militante detenuto dei Nap. Signorile, il vicesegretario, fa sapere al governo che intanto si potrebbero eliminare i vetri divisori nei colloqui in carcere. Nei giorni precedenti ci sono stati articoli roventi su un ipotizzato incontro in carcere tra Curcio e la compagna con cui conviveva al momento dell’ultimo arresto, Nadia Mantovani; incontro su cui il ministro ha fornito una smentita ufficiale. A Torino, al processo contro il nucleo storico delle Br, Ognibene legge, a nome di tutti i detenuti, un comunicato. Non vi è alcun cenno diretto alla vicenda Moro, tuttavia vi si afferma: «Il nostro programma strategico è preciso: liberazione di tutti i prigionieri e distruzione delle galere. Ciò non significa un’assenza di iniziativa su problemi immediati». Specificano alcune proposte, precisando che non sono nel segno della trattativa, ma una «concretizzazione dei rapporti di forza che già sono maturati a livello generale». Vanno dall’eliminazione del blocco della corrispondenza all’autodeterminazione nella composizione delle celle: un programma «contro ogni tentativo di distruzione politica e personale dei prigionieri». Molti leggono il comunicato come uno spiraglio che si apre. A piazza Barberini, a Roma, Moretti, Balzerani e Seghetti si incontrano con Morucci e Faranda. È un incontro pericoloso dal punto di vista della clandestinità e delle regole di sicurezza, ma il dissenso dei due per un esito mortale del sequestro Moro è consistente. Oltre ai ragionamenti politici, spendono una riluttanza a eliminare un prigioniero, un argomento questo che non deve suonare del tutto estraneo a chi con Moro sta condividendo minimi gesti di vita quotidiana. Ma Moretti e gli altri sembrano determinati. Non solo l’esecutivo ha già deciso, ma tutte le colonne sono state interpellate e il responso è univoco: il Tribunale del Popolo ha stabilito una condanna. La responsabilità dell’uccisione è del potere politico, e questa è solo una tappa della lotta armata, della guerra di classe. Il confronto è teso. Forse ciascuno sente il peso delle proprie scelte, il senso di ciò che accadrà. La Croce Rossa Internazionale comunica all’ambasciatore italiano Di Bernardo di non poter intervenire, per assoluta incompetenza. Dp, cartello elettorale della sinistra rivoluzionaria, che si è dichiarata per la trattativa, emette un comunicato dove dice: «Si deve prendere atto che la posizione di chi si muove per la liberazione di Moro è indebolita dall’equivoco con il quale si insiste a parlare di iniziative umanitarie. Occorre chiarire che chi propone la trattativa lo fa per ragioni politiche, prima che umanitarie». Il riferimento polemico ai socialisti è chiaro. Pascalino, procuratore generale di Roma, dopo aver ricevuto le oltre cinquemila pagine del fascicolo riguardante via Fani, convoca Berlinguer. Il leader comunista viene ascoltato come parte lesa, in quanto si è saputo di un piano delle Br contro di lui. A Genova, uomini politici, industriali, giudici, giornalisti, si sentono nel mirino delle Br. In un vertice segreto tra polizia, carabinieri e guardia di finanza, è stato preparato un piano che ha diviso la città per zone: fin dalle prime ore del mattino le strade vengono setacciate da centinaia di uomini, con perlustrazioni, posti di blocco, perquisizioni.
4 maggio
Alfredo Lamberti, capo del personale Italsider, viene ferito a Genova sotto la sua abitazione mentre rientrava a casa. Due giovani gli hanno sparato diversi colpi, ma solo un proiettile lo ferisce al ginocchio. Dopo poco più di un’ora l’attentato è rivendicato telefonicamente dalle Br. Quasi alla stessa ora, a Milano, nove colpi sono sparati alle gambe di Umberto Degli Innocenti, 51 anni, ingegnere responsabile di due reparti della Sit-Siemens. Stava rientrando a casa quando tre giovani, scesi da una Fiat 128, gli hanno sparato. Sempre a Milano, nella notte precedente, un vagone carico di Giuliette dell’Alfa Romeo era stato dato alle fiamme alla stazione Bovisa, in un attentato rivendicato dalle Squadre armate proletarie. I giornali mettono in relazione l’attentato con la situazione conflittuale all’Alfa per via dell’introduzione dei sabati lavorativi. «l’Unità» titola Una via non praticabile un articolo in cui si criticano duramente le iniziative socialiste, considerate dannose sotto il profilo giuridico e politico. Ogni ipotesi viene valutata e respinta. L’articolo conclude chiedendosi se così non «si finisca col recare grave nocumento sia alla causa del rigore costituzionale sia a quella stessa della vita di Moro». Nella stessa prima pagina, un fondo, I santuari, argomenta ancora la scelta della fermezza, ma soprattutto si chiede perché le indagini non compiano passi avanti e si fermino quando «sulla loro strada incontrano oscuri quanto protetti santuari… forse ben più potenti dell’organizzazione terrorista». Chi siano queste «forze potenti» lo chiede «la Repubblica» a Macaluso, della direzione comunista. Macaluso non vuole fare nomi «che del resto sono sotto gli occhi di tutti», ma un ragionamento politico. Ci sono forze interessate alla rottura degli attuali equilibri politici e che vorrebbero di nuovo il Pci all’opposizione, proprio come le Br. «Dove è andato a finire – si chiede Macaluso – tutto l’ex apparato del Sid? E coloro che guidavano l’ufficio Affari riservati del ministero degli Interni? E certe oscure figure del mondo bancario? E tutto il giro collegato al mondo delle tangenti? E i disegni e i protagonisti della sezione P2 della massoneria?». Nello stesso articolo si dà conto del comunicato della direzione comunista in cui si chiede che le indagini siano intensificate e meglio coordinate, e si dice che la condizione per sconfiggere il terrorismo è l’unità delle forze democratiche popolari. Trenta socialisti, tra cui Giorgio Bocca e Stefano Rodotà, firmano un comunicato in cui si riconoscono pienamente nella dichiarazione di Pertini: «La sollecitudine per la sorte di un uomo degno non può consentire di infrangere il confine arduo e sottile tra iniziativa umanitaria e tenuta inequivoca dello Stato». Cossiga apre una serie di trasmissioni televisive dedicate alle elezioni amministrative del 14 maggio. C’era attesa per le dichiarazioni che avrebbe potuto fare sul caso Moro; d’altronde era la sua prima apparizione in Tv dall’inizio della vicenda. Ma non ci sono state domande specifiche del moderatore Jacobelli, tranne una sull’eventuale influenza rispetto ai risultati elettorali. Il ministro ha risposto dicendosi convinto che «le elezioni costituiranno una risposta ferma al tentativo di rompere la legalità repubblicana e suoneranno come una condanna dell’eversione». La Dc comunica che il 9 maggio si terrà la direzione del partito per convocare il Consiglio nazionale. Gli stretti collaboratori di Moro, Freato Guerzoni e Rana, nonché amici della sua famiglia, vengono interrogati dal procuratore generale di Roma, Pascalino. Sui giornali si è parlato a lungo dei tre come terminali di collegamento tra i «postini» delle Br e altri interlocutori, e si è più volte ventilata l’ipotesi che una sorta di omertà garantisca l’inafferrabilità dei latori delle missive di Moro. L’iniziativa di Pascalino si inquadra dunque in una necessità di «dare polso» alle indagini. L’esecutivo delle Br valuta definitivamente la situazione e predispone tutte le misure necessarie da prendere dopo l’uccisione di Moro. Pesano diverse considerazioni: la prigione può essere scoperta, dato che il sequestro è durato a lungo; ma soprattutto, ai loro occhi, quanto leggono sui giornali a proposito delle iniziative socialiste sembrano solo ulteriori rinvii.
5 maggio
A Genova, Milano, Torino e Roma viene fatto ritrovare il comunicato n. 9 delle Br: «La battaglia iniziata il 16 marzo è arrivata alla sua conclusione». Il comunicato è durissimo, tutto incentrato su una logica di guerra tra le «avanguardie comuniste e gli uomini della controrivoluzione imperialista», e su un suo lineare sviluppo. La Dc viene indicata come responsabile del rifiuto della loro proposta di scambio, mentre le iniziative dei socialisti vengono irrise come «fumo negli occhi». Il nocciolo vero è la questione della liberazione dei tredici detenuti. L’unico linguaggio che rimane «è quello delle armi». «Concludiamo quindi eseguendo la sentenza cui Aldo Moro è stato condannato». È a quel gerundio che si aggrappano le opinioni di politici, osservatori e giornalisti. Poco prima dell’arrivo del comunicato era finita la riunione del Comitato interministeriale per la sicurezza, con una dichiarazione finale di non accettabilità delle proposte socialiste di atti di clemenza verso alcuni detenuti e di modifica di alcune norme vigenti nelle carceri speciali. La riunione, in realtà, oltre a fare il punto su indagini e iniziative, ha il senso della prima valutazione strategica sul dopo-Moro. Il governo ritiene ormai superata ogni possibilità «umanitaria» e, verificato il fronte maggioritario di convergenza con comunisti e repubblicani, si prepara a gestire l’emergenza. Si è parlato dei «santuari», come li hanno definiti i comunisti in un articolo su «l’Unità» del 4 maggio. Si è ascoltata la relazione di Cossiga sul carattere di lunga durata della lotta al terrorismo, da non considerare solo come un problema di polizia ma di lotta politica. Più tardi Cossiga si incontra separatamente con Andreotti, informandolo dei piani prestabiliti, dei tipi di azioni e reazioni previste e delle diverse condizioni di pericolo che potrebbero presentarsi. Gli inquirenti intanto puntano sull’Università della Calabria, come uno dei luoghi dove potrebbe celarsi il «cervello» dell’iniziativa terrorista. La sezione universitaria della Cgil sembra dello stesso avviso; infatti, ha subito espulso un suo iscritto, sfiorato da indagini, e sciolta la sezione sindacale dove la decisione aveva creato resistenze e polemiche. Immediate le riunioni dei partiti dopo l’arrivo del comunicato n. 9. A piazza del Gesù sui volti di Zaccagnini e degli altri leader si legge la sensazione dell’epilogo. È la stessa impressione che riporta Tatò, capo ufficio stampa e uomo di fiducia di Berlinguer, venuto qui da Botteghe Oscure, dove ritorna. Piccoli comunque dice che «il comunicato non ci appare completamente conclusivo». Questa sospensione, questa attesa emergono dalla nota che viene affidata al «Popolo», per essere pubblicata l’indomani: «Al di là del tono ultimativo, questo comunicato non permette una valutazione conclusiva per ciò che riguarda la vita di Aldo Moro». La presidenza del Consiglio ha annunciato la disponibilità del governo a far visitare le carceri di massima sicurezza da Amnesty International, il cui rappresentante ha preannunciato di aver già compiuto i passi necessari per poter svolgere la visita. Claudio Vitalone, sostituto della procura generale della Repubblica di Roma, incontra a palazzo di giustizia Daniele Pifano, uno dei leader di via dei Volsci, collettivo dell’area di Autonomia operaia. Interpellato in merito alla vicenda Moro, Pifano insiste per l’urgenza di un intervento diretto del governo verso la liberazione di un detenuto e verso il miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri. Non ha alcun elemento di certezza che l’iniziativa possa automaticamente consentire la liberazione di Moro, ma è convinto che possa rappresentare un forte elemento di valutazione, qualcosa che possa smuovere l’inerzia ineluttabile degli eventi. Vitalone, che è politicamente legato ad Andreotti, assicura che si muoverà in merito. «Mia dolcissima Noretta». Inizia così l’ultima lettera di Moro alla moglie, recapitata dal parroco don Mennini, amico della famiglia. Moro ha seguito l’andamento dei tentativi più recenti del Psi e dei suoi collaboratori, ha visto i fragili esiti di fronte a un muro compatto e sordo. Forse ha anche intuito che le Br hanno preso una decisione ultima. Le sue sono parole di chi va alla morte e si raccoglie su quanto gli è più caro. È sereno adesso di fronte a un’ineluttabilità che immaginava invece di poter governare, e si preoccupa soprattutto della sua famiglia; quella famiglia che ha ripetutamente invocato come ragione prima della necessità di trattare. Non lesina le ultime accuse: «Vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della Dc con il suo assurdo ed incredibile comportamento… È poi vero che moltissimi amici non si sono mossi come avrebbero dovuto… Il Papa ha fatto pochino; forse ne avrà scrupolo».
6 maggio
Eleonora Moro telefona a Fanfani. Ha già sentito il presidente Leone che le ha garantito di stare «con la penna in mano» pronto a firmare un provvedimento di grazia, purché il governo, tramite il ministro di Grazia e Giustizia, gliene faccia richiesta. Tutto sembra avviarsi a conclusione. Ormai pare esaurita la possibilità di muoversi all’interno delle contraddizioni democristiane. Resta Fanfani. Il presidente del Senato si reca a via del Forte Trionfale e assicura alla signora Moro che avrebbe preso delle iniziative. Craxi non si rimprovera nulla. In un certo senso, l’attacco di cui è fatto oggetto nell’ultimo comunicato Br rilegittima i suoi tentativi in termini istituzionali. Non crede – e con lui buona parte del partito – che si sia arrivati all’epilogo. Incontra Pace per un ultimo tentativo. Questa volta ha bisogno di sapere con certezza che Moro sia vivo e che un suo messaggio giunga a destinazione. All’ex leader di Potere operaio affida la frase «misura per misura»: se la si leggerà in una prossima comunicazione delle Br o in un biglietto autografo di Moro, ci sarà ancora spazio per la trattativa. Pace non può dare alcuna garanzia in merito, ma cercherà di riuscirci. Il vicesegretario socialista, Signorile, va da Fanfani insieme a Vassalli che con giuristi e avvocati ha elaborato proposte di mediazione. Secondo Vassalli e Signorile esistono ancora possibilità, ma Fanfani dovrebbe immediatamente rilasciare una dichiarazione pubblica per dare il senso che dentro la Dc non tutto è compattamente concluso. Vassalli, intanto, con la collaborazione di alcuni funzionari del ministero di Grazia e Giustizia, ha fatto disporre il trasferimento in ospedale di Alberto Buonoconto, uno dei detenuti su cui si è appuntata la valutazione di un’alternativa alla liberazione dei tredici detenuti richiesti dalle Br. Buonoconto, militante dei Nap, è affetto da gravi problemi motori e depressivi. Fanfani decide di mandare un segnale attraverso un uomo a lui vicino, Bartolomei, capogruppo Dc al Senato e membro della delegazione riunita in permanenza a piazza del Gesù fin dal 16 marzo. L’esponente democristiano è impegnato in provincia di Arezzo per la campagna elettorale. In un suo comizio dirà che «apprezza lo spirito umanitario del recente atteggiamento del Psi». Si inerpica anche su alcune considerazioni rispetto al quadro politico della maggioranza e alla necessità di distinguere un’opposizione. È certo un segnale debolissimo. Ma per gli esperti di linguaggio democristiano, Fanfani si prepara a dar battaglia. Pifano sente Vitalone e insiste perché il governo faccia qualcosa. Ma mentre il leader di Autonomia pensa a un possibile nuovo scenario da determinare politicamente, in cui più forte possa pesare la richiesta del movimento alle Br di non uccidere Moro, il sostituto procuratore chiede notizie, collegamenti, contatti, indizi. Da Torino, al processo contro i brigatisti del «gruppo storico» che nei giorni precedenti avevano letto un documento sulle condizioni nelle carceri di massima sicurezza, si registra silenzio dopo l’ultimo comunicato. Parlano, invece, gli avvocati Spazzali e Guidetti Serra, ed entrambi manifestano contemporaneamente un convincimento di conclusività della vicenda e di un sottile filo di speranza. Guiso, che ha avuto un lungo colloquio in carcere con alcuni brigatisti, dice: «I detenuti si riconoscono nell’organizzazione esterna». Filtra sui giornali la notizia che monsignor Bettazzi, il vescovo di Ivrea che ha firmato l’appello di «Lotta Continua», aveva preparato una lettera in cui si offriva alle Br come ostaggio in cambio di Moro. Aveva anche cercato di contattare l’avvocato Guiso. Prima di renderla pubblica, il vescovo si era consultato con gerarchie ecclesiastiche del Vaticano che lo avevano sconsigliato, seppure il gesto rievocasse l’iniziativa del Papa durante il sequestro Schleyer. Le motivazioni starebbero tutte nel bisogno di «evitare ogni pressione sulla Dc». Marco Ramat, ex segretario della corrente di Magistratura democratica, esplicita in un’intervista una frattura all’interno dell’associazione dei magistrati. Le parole di Ramat – che pur ammette una certa acquiescenza della sinistra di fronte all’ansia autoritaria che attraversa il paese (rintracciabile nelle norme antiterrorismo e nella pericolosa logica dell’emergenza) – vanno nel senso di una «intransigente difesa dello Stato democratico». Terzo sabato lavorativo all’Alfa di Milano. Il sindacato è sul piede di guerra. «Davanti ai cancelli ci sarà tutto il Consiglio di fabbrica. Questa volta gli autonomi non dovranno nemmeno avvicinarsi ai cancelli». La vigilanza interna è ormai una realtà, e le polemiche sulle squadre di vigilantes-operai, che avevano diviso il sindacato, scomparse. Eugenio Scalfari su «la Repubblica» plaudirà al «comportamento esemplare degli operai dell’Alfa Romeo… Apparentemente si tratta di un episodio puramente sindacale; in realtà è stata una risposta politica… quando abbiamo parlato di “egemonia operaia” è a questo tipo di comportamenti che guardavamo». Attentato a Novara contro Giorgio Rossanigo, medico del carcere di massima sicurezza della città. Scesi da una Simca, sono saliti in tre nel suo studio e, dopo averlo colpito alla testa, uno di loro gli ha sparato alle gambe. Le condizioni del medico, prontamente soccorso, non sono gravi.
7 maggio
Joseph Califano, uno dei più stretti collaboratori del presidente americano Carter, incontra Andreotti manifestandogli «l’ammirazione del governo degli Stati Uniti per l’atteggiamento di fermezza sulla questione Moro». Zaccagnini, reduce da due comizi a Novara e Pavia, ritorna a Roma. Durante i suoi interventi il segretario democristiano è parso attraversato da commozione autentica. Ha spiegato: «Noi della Dc abbiamo dato una testimonianza sofferta tra il sentimento che ci spingerebbe a compiere certi atti e il senso dello Stato». La delegazione Dc, pur impegnata nella campagna elettorale, ha deciso di non lasciare sguarnita la sede centrale. Tutti i leader vi rientrano. Anche Berlinguer tiene un comizio, a Viterbo. La lotta all’estremismo e l’impegno a mantenere salda questa maggioranza sono i temi centrali della sua argomentazione. Fortemente polemico contro ogni ipotesi di trattativa con la «banda di assassini delle Br», Berlinguer motiva la sua intransigenza: «Ogni patteggiamento significherebbe un’offesa ai caduti delle forze dell’ordine, alle altre vittime, alle loro famiglie… ogni cedimento renderebbe impossibile chiedere alle forze dell’ordine di continuare a compiere il loro dovere». Il segretario comunista ha rivendicato al suo partito di aver guidato il fronte della fermezza. Craxi rilascia una dichiarazione: «I socialisti non possono associarsi al trionfalismo dei salvatori della Repubblica. La morte di Moro sarebbe una sconfitta». È quanto ripete il vicesegretario socialista, Signorile in polemica con il comunista Chiaromonte dice che il suo partito spera ancora di «risparmiare alla democrazia italiana un colpo sanguinoso dalle imprevedibili conseguenze». L’esponente del Pci, interrogandosi sull’inefficienza della macchina investigativa, aveva parlato di forze reazionarie italiane e straniere che tentano di approfittare della situazione. Il piano per dotare tutte le massime autorità dello Stato di automobili blindate prende l’avvio in questi giorni. Sono vetture particolarmente attrezzate – corazze d’acciaio fino a 3 millimetri di spessore, vetri speciali, paraurti antisperonamento. Il procuratore di Roma, Pascalino, rilascia una dichiarazione in cui sostiene che «anche a chi non fa parte delle Br, ma ne condivide l’ideologia, ad esempio l’attentato alle istituzioni democratiche, possono essere contestati i reati di cospirazione politica e di banda armata». Si tratta, a suo avviso, di colpire l’area di consenso all’eversione. Sono stati già effettuati ventitré arresti e si attendono numerosi mandati di cattura per i prossimi giorni. Davanti all’Italsider di Genova vengono trovati volantini delle Br, con analisi specifiche dello stabilimento e la ristrutturazione della siderurgia. Le Br si rivolgono agli operai «perché organizzino nelle fabbriche il contropotere proletario armato, costruendo brigate clandestine di operai partigiani che si organizzano per la lotta armata, pur continuando a vivere nella legalità».
8 maggio
I legali di Alberto Buonoconto, detenuto dei Nap con gravi problemi di salute, presentano richiesta di libertà provvisoria per il loro assistito. Qualcuno dal ministero di Grazia e Giustizia sollecita il presidente della corte di Appello di Napoli a prendere rapidamente in esame la questione. Di questa iniziativa, riconducibile alle pressioni della famiglia Moro sui socialisti, sul ministro della Giustizia, sul presidente Leone, e finora quasi sottaciuta, vengono presto a conoscenza Zaccagnini, Cossiga e Andreotti. Per loro si tratta ora di capire quali intenzioni reali abbia Fanfani, da sempre decisamente contrario alla maggioranza attuale. Fanfani, per parte sua, recatosi ad Arezzo in un giro elettorale, nonostante la cautela e l’involuzione discorsiva, si schiera più apertamente «nel rispetto della Costituzione e delle leggi… in difesa della vita e della libertà di Aldo Moro». Il presidente del Senato si è ormai deciso a utilizzare l’incontro dell’indomani a piazza del Gesù per esprimere compiutamente il suo punto di vista. Facendo leva su una critica di inefficienza al ministro degli Interni, circoscriverà la sua proposta: provvedimento di grazia firmato da Leone. In serata, Craxi e Fanfani si incontrano. Un asse politico sulla trattativa sembra adesso delinearsi e prendere consistenza. A Milano, davanti a un ambulatorio, viene ferito alle gambe il dot-tor Diego Fava, medico incaricato di visite fiscali dalle aziende. Gli attentatori sono fuggiti su un’auto targata Novara, il che fa pensare che possano essere gli stessi che due giorni prima ferirono il medico delle carceri di quella città. Entrambi gli attentati vengono rivendicati dai Proletari armati. Sempre a Milano un ordigno ha distrutto l’auto di un delegato di fabbrica della Sit-Siemens, Ermes Ranieri, iscritto al Pci. L’attentato è stato compiuto davanti allo stabilimento industriale. A Roma si progetta la riunione nazionale di Autonomia operaia per discutere del caso Moro. Nel corso di una conferenza stampa a Radio Onda Rossa, Scalzone e Tavani, leader di movimento, hanno specificato i temi dell’assemblea. Gli autonomi sono convinti che sia un «grave errore strategico giustiziare Moro… la morte di Moro serve allo Stato… non è più vero che i partiti sperano di liberarlo, lo vogliono morto». Giovanni Spadolini, per i repubblicani, scrive un articolo di critica contro la decisione del governo di far ispezionare le carceri di massima sicurezza ad Amnesty International. È contrario anche alla convocazione del Consiglio nazionale della Dc («richiesta contenuta in una delle lettere attribuite all’on. Moro»). Aldo Moro esprime ai brigatisti che lo detengono il desiderio che la moglie sia la prima a essere informata della sua morte, da loro e non da altri. Una Renault 4 rossa, rubata giorni addietro, viene portata nel box del garage di via Montalcini, l’appartamento acquistato dalla Braghetti che è stata la prigione di Moro per tutti i giorni del sequestro.
9 maggio
Moretti e Gallinari riconsegnano a Moro i suoi vestiti e i suoi oggetti personali. Il presidente democristiano ha indossato finora una tuta da ginnastica. Nell’appartamento di via Montalcini sono presenti anche la Braghetti e Maccari. Durante i lunghi giorni del sequestro è dimagrito. Gli viene detto di prepararsi perché bisogna uscire. Scendono nel box del garage. È buio. Qualcuno di loro controlla le scale perché non arrivi nessuno all’improvviso. Moro viene fatto sdraiare nel bagagliaio posteriore della Renault. Si rannicchia, lo spazio è angusto. Due armi sparano nove colpi ravvicinati al cuore. La sentenza è stata eseguita. La macchina inizia il suo percorso verso via Caetani. Sui quotidiani del giorno l’attenzione è tutta rivolta alla riunione della direzione democristiana, prevista in mattinata, e, in particolare, a quello che si presume possa dire Fanfani. «I riflettori sono puntati su piazza del Gesù» scrive l’articolista del «Corriere della Sera». Ma la situazione sembra comunque blindata. Zaccagnini è tornato dal giro elettorale più convinto che mai di avere scelto la strada giusta. Piccoli è al suo fianco. Galloni nega ogni possibilità di trattativa. Granelli e Cossiga ripetono che sarà fatto tutto il possibile per salvare Moro, ma «senza aprire la via a cedimenti». Il governo resiste alle critiche di Fanfani sulla mancanza di un quadro strategico sull’ordine pubblico. Una critica cui fa eco «l’Avanti», scrivendo che «lo Stato e i suoi apparati appaiono colti di sorpresa». Il bersaglio è Cossiga. Anche «la Repubblica» titola su Fanfani e si interroga «sui riflessi che probabilmente ci saranno nella direzione democristiana». Tuttavia – continua il quotidiano di Scalfari – «non pare che la sortita fanfaniana possa modificare gli equilibri attuali». «l’Unità» riporta tutte le dichiarazioni di esponenti democristiani che si addensano attorno la frase «la posizione della Dc rimane precisa e continua». Il quotidiano comunista dà risalto alle parole di Manca, esponente socialista, critico verso la segreteria di Craxi, e a quelle di La Malfa che ribadiscono l’esigenza di fermezza. Sempre in prima pagina è riportato un resoconto del dibattito parlamentare in commissione Giustizia sulla legge dell’ordine pubblico, i cui lavori «vanno a rilento per l’ostruzionismo radicale e missino… che bel giorno sarebbe per gli ever-sori criminali quello in cui, perdurando il loro attacco allo Stato, si dovesse constatare anche la paralisi delle istituzioni». Morucci è alla stazione Termini. La piazza è gremita, come sempre. È mezzogiorno. Tocca a lui telefonare per avvisare la famiglia su dove ritrovare il corpo. Moro aveva espresso il desiderio che la moglie fosse la prima a essere informata della sua morte. Morucci chiama uno dei contatti che ha già utilizzato per recapitare le lettere. È un assistente di Moro. «Pronto? È il professor Franco Tritto?». «Chi parla?». …

[da Le polaroid di Moro, DeriveApprodi, 2012]
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