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05 Marzo 2002
La bambina che scambiò un missile per una stella cometa
Quando arrivarono gli elicotteri Apache era già notte e c'era un cielo stellato. Sharon, il dio della della guerra, aveva deciso di dare una risposta immediata per sangue israeliano versato: un cecchino con un vecchio fucile aveva sparato a ripetizione o qualcuno s'era fatto saltare in aria davanti una discoteca. Il cecchino o il kamikaze a loro volta avevano vendicato sangue palestinese versato: i carri armati avevano schiacciato uomini e cose in un qualche tugurio o a un posto di blocco avevano ucciso madri, figli, settime generazioni. E' ormai difficile capire quale sia l'occhio e quale sia il dente, tutto è solo un grumo sanguinolento indistinto. Sharon, il dio della guerra, lo tiene in pugno senza dare di stomaco. Lo esibisce, sfrontato, come fanno gli dei della guerra.
Quando arrivarono gli elicotteri Apache era già notte e c'era un cielo stellato. Sono le stesse stelle che vediamo noi, che si vedono dovunque, le stesse costellazioni: qui e lì, i più saputi indicano a chi non sa e non si raccapezza come si rintraccia Orione e l'Orsa, affascinando. E' un gran dono sapere le stelle: ho sempre pensato ci voglia qualcosa di speciale per riconoscere un disegno fra quei puntini luminosi, una figura. Io, quando drizzo il naso verso il cielo, provo solo timidezza, mi confondo. E' un dono sapere le stelle: come quando, da bambini, si gettano le biglie di un sacchetto sulla sabbia e ci si azzuffa a voler prendere la rossa, la verde, la blu, mentre qualcuno a quattro zampe riconosce invece un tracciato, una architettura insolita, una forma, e lo racconta, zittendo: "è lì, come fate a non vedere?"
Forse bisogna credere nelle favole per saperle raccontare, forse bisogna credere nelle favole per smettere di azzuffarsi.
E' difficile credere nelle favole in Palestina: i bambini quando arrivano gli elicotteri Apache escono fuori dai tuguri e gridano "siamo qui, tirateci addosso, prendeteci se siete capaci, siamo qui". Anche con i carri armati fanno così, gli vanno addosso, gli tirano pietre, cercano di salirci sopra. D'altronde, i bambini in Palestina hanno un modo tutto loro di intendere le favole: quando mandano la letterina a bambino gesù per dirgli di un loro desiderio scrivono "voglio farmi scoppiare, bambino gesù". I bambini scrivono sempre le letterine che possono, hanno sempre i desideri che possono.
Shatha invece crede ancora nelle favole e le sa raccontare: ha undici anni e non sa più quanti fratelli cui accudire, i suoi e quelli dei vicini, quelli che sono morti, quelli che sono scappati, quelli che non riescono più a badarci. Si cresce tutti insieme a Betlemme, come a Ramallah o a Gerusalemme: forse si cresce tutti insieme anche a Gaza, nei Territori occupati, nelle colonie o a Tel Aviv. Forse si cresce tutti insieme sempre quando il dio della guerra impazza e lancia i suoi tuoni.
O forse non è così: i bambini americani, quando le strisce verdoline apparvero sui loro teleschermi a raccontare le notti di bombardamento sull'Irak non pensavano alla guerra e non pensavano neanche alle favole: pensavano a un gioco - per fortuna così lontano -, cercavano una console. Ora, un altro dio della guerra ha cambiato i loro giochi. I bambini hanno sempre i giochi che possono.
Shatha crede alle favole, le racconta sempre ai suoi infiniti fratelli da accudire, quelli che cerca di tenere stretti a sé perché non si becchino una pallottola o non finiscano sotto qualche carro armato: ma loro scappano sempre, ritornano, non tornano più, cambiano: qualcuno va "a farsi scoppiare". Vogliono diventare "martiri", sgomitano per correre sotto le pallottole, a chi arriva primo. Magari credendo sia un gioco: i bambini hanno sempre i giochi che possono.
E' perché crede alle favole forse che Shatha conosce le stelle, ha questo dono. A Betlemme nessuno guarda il cielo stellato, è da tanto tanto tempo che nessuno mette più il naso nel cielo per guardar le stelle: tutti gli amori, lì, sono senza stelle. Ma Shatha ha imparato, o forse non si imparano queste cose, sono solo un dono. Così lei racconta il cielo ai suoi fratelli infiniti da accudire, provando a tenerseli stretti con le sue favole. Scappano sempre, ritornano, cambiano, non tornano più: ma lei ha infinite favole da raccontare sul cielo, una per ogni stella, potrebbe non smettere mai.
Così, l'altra notte lei era lì, a Betlemme, con il suo naso nel cielo e una favola da raccontare ai suoi infiniti fratelli da accudire. Quando arrivarono gli elicotteri Apache era già notte e c'era un cielo stellato. Lo stesso cielo di Shatha.
E quando gli elicotteri Apache lanciarono i loro missili, i bambini scapparono gridando "siamo qui, tirateci addosso, prendeteci se siete capaci, siamo qui". Scapparono da Shatha e dalle sue favole: scappano sempre. Vanno ad azzuffarsi, vanno a giocare, vanno a morire. Shatha non scappa mai, ha troppi fratelli da accudire. Così, quando arrivarono gli elicotteri Apache e spararono i loro missili, a distruggere cose e case, uomini e bambini, lei continuò a guardare il cielo, a ficcarci il suo naso, il suo dito dentro. Non aveva mai visto quella stella, non era mai apparsa su Betlemme. Ed era sorpresa, affascinata, perché era grande, luminosa, e sembrava così vicina, proprio sopra le loro case. Una stella fatta di tante stelle, come una coda di stelle. Che andavano da tutte le parti, a cadere vicino: un evento straordinario, il più grande dei miracoli, un annuncio: quando mai le stelle cadono così vicino? Bisogna credere alle favole per pensare che le stelle vengano a posarsi sulla tua casa, sulla tua mano.
Così, Shatha corse incontro alle stelle. Lasciò per la prima volta quei pochi bambini che teneva stretti vicino a sé e corse incontro alla stella cometa. Voleva sapere la storia più grande, quella che lei non aveva ancora raccontato perché non aveva mai visto una stella così, voleva sapere per poterla raccontare a tutti gli infiniti bambini da accudire, così da tenerli meglio stretti vicino a sé, perché non scappino.
E' così che è volata via Shatha, su una stella cometa. Dev'essere andata così, perché di lei non si trova proprio traccia, ma neanche un pezzettino piccolo piccolo, niente. Forse succede così a tutti quelli che credono nelle favole e sanno le stelle, che un bel giorno arrivano dal cielo e ti portano via. E' un dono, ve l'ho detto.
Però, adesso, sono ancora più confuso mentre drizzo il mio naso nel cielo.

Roma, 5 marzo 2002
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