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19 Ottobre 1999
Ossessione securitaria e commercio elettronico
Di recente, anche in Italia, aziende grandi e medie hanno pianificato investimenti e risorse sullo sviluppo dell'e-commerce, del commercio elettronico, ovvero degli scambi e delle transazioni commerciali riguardanti beni e servizi che si svolgono esclusivamente via Internet. L'esempio più vistoso, dal punto di vista pubblicitario, è stato quello della "barchetta" Fiat, la prima automobile venduta direttamente in rete, benché esperimenti simili siano già attivi da tempo in Giappone e negli Stati uniti, con l'obiettivo di ridurre i costi delle mediazioni e degli stockaggi (per capire l'impatto progressivo anche nel senso comune pensate a come bisognerà adeguare la frase "chi comprerebbe un'auto usata da quest'uomo?"). Ma vi è tutto un dinamismo in corso nell'ideare e approntare portali di accesso, contratti di offerte combinate, facilitazioni di acquisto, acquisizione di piccole società che hanno sviluppato in questi anni il know-how necessario.
Siamo notevolmente lontani dall'importanza (seppure, anche lì, ancora relativa) che il commercio elettronico ha in altri Paesi, come gli Stati uniti, dove la facilità e la velocità delle connessioni, lo sviluppo delle infrastrutture, la diffusione dei computer, l'attitudine e la mentalità sono molto più di uso comune, ma questo d'altronde vale anche per le carte di credito. I problemi che si pongono sono però gli stessi ovunque fin dall'inizio e, da questo punto di vista, può essere utile confrontarci con quanto altrove è stato detto, pensato, fatto in merito.
Di tutti i problemi relativi al commercio elettronico è estremamente interessante soffermarsi a valutare quelli concernenti il rischio e la sicurezza, e dalla parte dell'utente-cliente e dalla parte del fornitore-mediatore. E, infine, dalla parte dello Stato, per il suo ruolo neutrale nelle dichiarazioni di principio ma che sta divenendo pervasivo oltremodo. Interessante perché si riscontrano, nel mondo delle transazioni "virtuali", le stesse ossessioni securitarie che caratterizzano il mondo "reale".
Per loro stessa natura, il commercio e lo scambio dovrebbero tendere all'assunzione del rischio come parte di uno sviluppo espansivo all'interno di una regolamentazione precisa ma elastica, ad esempio per differenze di "codici" di abitudini territoriali, ma anche per differenze legislative. L'elemento fiduciario sopperisce ma non garantisce nello scambio e nell'acquisto: una parte del rischio viene assunta dal cliente, che può trovare la merce notevolmente al di sotto delle qualità pubblicizzate o a un prezzo decisamente più alto, una parte del rischio viene assunta dal venditore. L'equità di uno scambio sta nel progressivo ridursi di quest'alea rispetto le reciproche aspettative. L'ossessione securitaria svolta come eliminazione di ogni alea di rischio finisce invece con il paralizzare, quando non diventa motivo per evitare, l'iniziativa commerciale "aperta". Si può fare un paragone con le asserzioni dei gruppi industriali che non investono nel Meridione d'Italia perché "territorio criminale" e quindi rischioso: ciò però non ha impedito ai grandi gruppi di essere gli unici presenti e beneficiari nelle grandi opere pubbliche. O anche, con gli scambi commerciali con i Paesi del'Est, considerati fortemente a rischio: ciò non ha impedito, appunto, lo scandalo delle transazioni finanziarie internazionali all'ombra del governo russo e del Fondo monetario internazionale. C'è quindi una dissimetria della richiesta di sicurezza: dalla parte dell'utente essa è rivolta alle aziende in termini di trasparenza, credibilità e garanzia; dalla parte delle aziende essa è rivolta allo Stato in termini di "controllo".
In realtà, adesso, questa richiesta di sicurezza sembra incanalare tutto il dinamismo del commercio elettronico solo verso alcuni soggetti specifici, fortemente "istituzionalizzati" (come le banche, ad esempio, o i grandi network, vedi E. Pedemonte, Se non ti fidi dell'e-commerce oggi hai un amico: l'infomediario, in "Telèma", estate-autunno 1999, n. 18) in grado di corrispondere e dettare determinate caratteristiche di garanzia e affidabilità, escludendo qualsiasi iniziativa autonoma, dal basso, con pochi investimenti. Tutto ciò ha un peso e una qualità rilevanti rispetto il percorso delle nostre società verso caratteri maggiori di democrazia o, al contrario, verso sue restrizioni e forme di gerarchia piramidale.

Interventismo statale
Sono passati più di due anni da quando Clinton e Gore rilasciarono il loro A Framework for Global Electronic Commerce (1997: si trova a http://www.iitf.nist.gov/eleccomm/ecomm.htm). In esso venivano esposti 5 principi-guida per il ruolo delle istituzioni nella regolamentazione dell'e-commerce. Essi erano:
- il settore privato va considerato come l'elemento di traino;
- il governo dovrebbe evitare indebite restrizioni nel commercio elettronico;
- laddove il coinvolgimento del governo è necessario, il suo obiettivo dovrebbe essere quello di sostenere e applicare un prevedibile, minimalista, consistente e semplice ambiente di leggi per il commercio;
- il governo dovrebbe riconoscere le qualità particolari di Internet;
- il commercio elettronico in Internet andrebbe facilitato su basi globali.
Ma a dispetto di queste dichiarazioni di principio (lo nota, tra altri, Michael Froomkin, vedi http://viper.law.miami.edu/~froomkin/articles/governance.htm), il considerare "indebite" le restrizioni, la promessa di "facilitare" il commercio e di fornire "minimaliste" regole si sono tradotte finora in una tendenza interventista dello Stato quant'altra mai (ad esempio nelle regolamentazione sul copyright o sui nomi dei domini o sui protocolli d'interfaccia o sulle identificazioni e responsabilità dei provider). Nello stesso tempo, la generale descrizione del settore privato come il soggetto di una eroica azione economica ha prodotto un'esasperata attenzione privilegiata all'autonomia di questo a costo di intervenire restrittivamente sulla privacy globale della cittadinanza e sui diritti di ciascuno. Questo intricato e contraddittorio agire dello Stato se per un verso non ha inceppato lo sviluppo e la diffusione del commercio elettronico (è d'altronde difficile valutare quanto lo abbia aiutato), per l'altro ha posto opzioni pesanti sul tasso generale di democraticità e quindi sui caratteri di accessibilità e uso generalizzati della rete come luogo degli scambi equi. L'impressione che si ha non è quella di una nuova frontiera elettronica (la conclamata new economy), in cui c'è "terra" per tutti, purché si sia capaci, abili, veloci, determinati, coraggiosi e cocciuti, e si abbia qualcosa di buono da vendere, ma piuttosto quella di un appoggio e di una protezione incondizionati alle corporation, in cui non c'è spazio per l'iniziativa individuale o di piccolo gruppo, ricacciata nella marginalità quando non costretta ad operare ai limiti della legalità e oltre, esponendosi così ad essere stigmatizzata e castigata. In buona misura è quanto già accaduto per le frequenze audio e video, è quanto sta accadendo nel mondo del commercio "solido" con l'invasione degli ipermercati e la progressiva estinzione del piccolo commercio. Il fatto che siano accaduti dei "miracoli" pionieristici ha attirato l'attenzione delle corporation sul commercio in rete ma non delinea il suo movimento e la sua strutturazione futuri.
Ora, lo sviluppo del commercio elettronico pone problemi pratici e concettuali davvero importanti (basti pensare a quelli relativi ai fori competenti nelle frodi commerciali o alle velocità di consegna delle merci ordinate, quindi alla costruzione di reti specifiche di trasporto), ma qui ci interessa soffermarci sulle questioni relative al rischio e alla sicurezza. Non solo la transazione avviene a mezzo di denaro virtuale, di moneta immateriale (fino a ipotizzare una sorta di borsellino o portafoglio elettronico - electronic pursue o wallet) come muovendosi verso una cashless society (vedi Laura Spintarelli, E' digitale, ma è pur sempre denaro, "Reset", ottobre 1999, n. 56), ma la merce vive una vita lunga di virtualità nel passaggio dal produttore al consumatore. Forse l'esempio più semplice sta nel pensare a come si va trasformando il "campionario", quella selezione trascelta della merce che il rappresentante di commercio portava con sé per mostrare al cliente qualità, affidabilità, resistenza, durata, garanzia di un determinato oggetto attraverso appunto un "campione" materiale. In fondo, le pagine web altro non sono che un "campionario", dove l'elemento determinante però diventa l'interfaccia, la qualità estetica della presentazione globale, la sua facilità di comprensione, insomma l'affidabilità generale della ditta e del suo mediatore e non tanto questo o quell'oggetto. Cresce il valore estetico della cornice di presentazione di un oggetto (e il valore tecnologico del reperimento della stessa attraverso i motori di ricerca) nella stessa misura in cui meno materiale diventa la sua "scelta" (il commesso viaggiatore di Miller dovrebbe trovare altri motivi per morire oggi). Insomma la relazione tra il cliente-compratore e l'oggetto passa tutta attraverso l'affidabilità, la credibilità, la consistenza, la solvibilità, la certezza, l'autenticità del virtuale mediatore. Quindi, tanto più forte il mediatore tanto più sicura la scelta. Ma non è il mercato a far legge, quanto il condizionamento del mercato, a mezzo di grandi investimenti e a mezzo di un insistito refrain sulla sicurezza.

Il controllo sul ciclo produttivo
Se si dà un'occhiata alle aziende che vendono "sicurezza" e garantiscono "protezione" (vedi, ad esempio, http://www.insuretrust.com) ci si rende immediatamente conto di come i problemi per il management vengano individuati nella infedeltà dei propri lavoratori, nelle incursioni degli hacker, nello spionaggio e furto dei dati, soprattutto per quel continuo ricorso all'outsourcing, ovvero alla decentralizzazione e all'affidamento all'esterno di parti e componenti del ciclo che ormai caratterizza la produzione post-fordista. Questa esigenza di "carattere securitario" del ciclo produttivo si va dilatando verso il ciclo commerciale. L'ossessione securitaria per come almeno si è finora sviluppata non garantisce il cliente-utente rispetto alle eventuali frodi di qualità che può subire (questa eventualità viene presa in considerazione solo come un risultato del processo non come sua prerogativa iniziale), ma sicuramente tende a mettere al sicuro le aziende rispetto la solvibilità e l'autenticità della domanda. Quello che fa impressione non è soltanto questa strutturazione ideologica e tecnologica, quanto il fatto che quanto più essa diventa significativa tanto più essa finisce con l'escludere dal mercato le piccole aziende: queste possono anche essere abilissime nell'inventare software e programmi adeguati, ma non possono mai reggere la concorrenza con un ciclo forte di "sicurezza", con un'immagine complessiva di "riduzione del rischio" che una grande azienda può offrire, condizionando così l'orientamento del mercato e della clientela (in questo senso è importante l'analisi del binomio liberismo-securitarismo di cui ha scritto S. Palidda anche su questo giornale).
Questa evidente asimmetria tra azienda e cliente nella configurazione securitaria del commercio elettronico (con una produzione normativa dello Stato che la sanziona) è valutabile come una riduzione del tasso di democrazia e di garanzie civili. Il criterio-guida è che l'aumento della sicurezza riduce il rischio (criterio già di per sé discutibile), ma comunque i soggetti "virtuali" contraenti (un acquisto si configura comunque come un contratto) non sono trattati in maniera paritaria. A un eccesso di "garanzie" per la proprietà (con uno stupefacente sviluppo delle tecnologie di crittografia, ad esempio) fino ad invadere la privacy e il diritto all'anonimato (significativa, anche se per ora è bloccata la generalizzazione d'uso, la capacità di Pentium III, che consente di identificare il computer in rete grazie al numero di codice del suo microprocessore, una specie di impronta digitale), non corrisponde una stessa preoccupazione per la salvaguardia dell'utente.
Le società mercantili che precedettero lo sviluppo capitalistico (e le elaborazioni di Schumpeter) assumevano il rischio come "prodotto derivato" della loro attività; furono poi le grandi società assicurative (in Inghilterra nell'Ottocento, la Trieste della fine degli Asburgo) a monetizzare il rischio, rendendolo computabile in percentuali e quindi in tassi, premi, contratti. Il ciclo della "sicurezza" era ancora legato alla merce, alla sua materialità, deperibilità, trasporto, consegna. Qui, ora, la smaterializzazione della merce, e soprattutto della moneta per lo scambio, sembra spingere verso una strutturazione dei soggetti del commercio fortemente caratterizzati da una "accountability" in cui l'identificazione, la mobilità, l'autenticità, la solvibilità sono tutti svolti in termini di sicurezza per le aziende con lo Stato a far da cornice normativa.
Insomma, l'attenzione a quanto accade e sta per accadere nell'e-commerce comporta questioni relative all'equità e alla trasparenza del commercio, allo sviluppo in senso democratico dello stesso, alle garanzie e ai diritti generali.
Immettervi ipotesi di attività - che si basino su criteri democratici e cooperativi, che costruiscano relazioni con produzioni marginalizzate ma di qualità fornendo "finestre" commerciali dall'interfaccia godibile, semplice, caratterizzata anche, che costruiscano software in grado di venire incontro ad esigenze di "garanzia", che abbiano la forza di imporre regole di trasparenza - può essere un modo di opporsi a un'apparente ineluttabilità dello strapotere dei grandi network (che oggi cavalca il business della sicurezza) e battersi per mantenere il carattere di "mondo aperto" della rete.

Roma, 19 ottobre 1999
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