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salva invia
01 Febbraio 2011
Perché lì sì e qui no?
Per una volta viene voglia di prendere per buono il paradigma di Samuel Huntington, quello dello scontro di civiltà. Solo che la faglia continentale, la frattura incolmabile non sta fra l’islam fondamentalista contro l’occidente giudaico e cristiano, fra la prospettiva di un medioevo teocratico e miserevole contro il radioso avvenire dell’economia capitalista. Uno scenario, in cui, peraltro, non c’è partita: basta essere spietati e crudeli. La rottura, invece, sta fra libertà e autoritarismo, fra democrazia e autocrazia. E questo è pane per i nostri denti. Lo scontro di civiltà, a sto giro, lo viviamo da dentro.
Con le rivolte che attraversano il Nordafrica e il Medioriente si chiude politicamente il ciclo storico aperto dall’attacco terrorista dell’11 settembre: per le centinaia di migliaia di giovani, per i rappresentanti di ogni ceto sociale che si battono a mani nude contro la violenza repressiva, al Qaeda – e il suo franchising, a seconda dei paesi – non può più rappresentare una prospettiva né immediata né di lunga durata. Queste rivolte sono la più importante, efficace, puntuale critica politica del terrorismo islamico e della sua capacità di attrazione.
La simbologia – il terrorismo è sempre vissuto di simbolismi – è già di per sé incolmabile: Mouammed Bouaziz, il giovane commerciante che si è dato fuoco contro un sopruso della polizia e della burocrazia, non era un kamikaze, non ha indossato una cintura esplosiva, non si è arruolato per addestrarsi in qualche cellula terrorista. Si è cosparso di liquido infiammabile e si è dato fuoco. Nel gesto, estremo, certo, violento, certo, difficile da capire per noi, certo, c’è tutta la differenza. Mouammed Bouaziz è uno shahid, un martire, ma è un martire della democrazia, non del terrorismo. C’è probabilmente una dimensione religiosa in quella determinazione, come in quella dei tanti che lo hanno imitato in questo o quel paese, ma è la stessa dimensione religiosa che spingeva i bonzi del Vietnam a darsi fuoco a Saigon contro i regimi corrotti e privi di scrupoli. I bonzi si bruciavano contro il regime di Diem, e contro l’occidente perché lo sosteneva, lo foraggiava. La dimensione religiosa – è qui il nocciolo della differenza, perché gioca sullo stesso terreno del califfo bin Laden o dei sauditi – è vissuta come immediatamente pubblica, di protesta politica. Una protesta diretta proprio contro gli stessi a cui al Qaeda farebbe volentieri la pelle: i Mubarak, i Ben Ali, i Bouteflika, i fantocci dell’occidente. Ma Mouammed Bouaziz se l’è tolta piuttosto la pelle. Scatenando quello che decine di attentati a Djerba come a Rabat, al Cairo come a Riad, non erano mai riusciti a ottenere e non volevano nemmeno ottenere: la rivolta popolare.
Le rivolte popolari che attraversano il Nordafrica e il Medioriente chiudono politicamente il ciclo aperto con la prima e seconda guerra del Golfo e con l’attacco all’Afghanistan, l’era del clan Bush, della Hallyburton di Dick Cheney, delle armi di distruzione di massa mai trovate, degli ideologi repubblicani, e della loro terribile eredità. Il messaggio è forte e chiaro: non servono i Karzai. I Karzai sono come i Mubarak, i Musharraf e gli Zardari pakistani sono come i Ben Ali. Regimi autoritari e odiosi, fragili e corrotti.
La partita è aperta, straordinariamente aperta. E molto, quasi tutto, dipenderà dall’occidente, dalle sue risposte. Sinora sono state deboli, imbarazzate, quando non odiose. Odioso, a esempio, è stato l’articolo di Robert Kaplan, non un professore qualsiasi ma un consigliere di Obama, sul «New York Times», dopo la rivolta tunisina: One small revolution. Dopo essersi provato a spiegare perché la Tunisia è unique, un’isola a sé stante – c’è una importante middle class! – e non parte integrante del mondo arabo, Kaplan arriva al cuore del ragionamento sull’area: «In terms of American interests and regional peace, there is plenty of peril in democracy». La democrazia è un pericolo per l’area. Non è stata forse – spiega Kaplan – la democrazia che ha portato l’estremismo di Hamas a governare a Gaza? Non è la democrazia a rendere fragile e indeterminato re Abdullah in Giordania? Meglio, molto meglio tenersi un autocrate fermamente in carica. Meglio, molto meglio andarci cauti in Medioriente piuttosto che auspicarsi un crollo a catena dei regimi come nell’89 nell’est sovietico. Se queste sono le premesse – e non è difficile sostenere che queste premesse sono sottoscritte da buona parte dell’establishment europeo, a cominciare dall’Italia nella sua, diciamo così, politica estera verso il mondo arabo come verso l’est –, lo scontro sarà durissimo.
In un articolo sul «Corriere della sera» del 23 gennaio, Giulio Sapelli si provava invece a cercare nella rivolta tunisina un carattere universale. E lo individuava nella disoccupazione giovanile. L’assunto che l’estensione dell’istruzione universitaria sia l’indicatore più affidabile della crescita economica e di un buon tasso di uguaglianza sociale è andato in frantumi. Non solo, ma non esiste una correlazione positiva tra la percentuale che i servizi hanno nel Prodotto interno lordo e la definizione di società «avanzata». Infine, analizzando l’andamento occupazionale mondiale non vi è nessun rapporto tra aumento della scolarizzazione e aumento dell’occupazione. Sapelli non ne tira conclusioni, ma le sue affermazioni avvicinano a noi, all’Europa, all’occidente – e ben più che per l’uso di internet o di facebook – le rivolte scoppiate in Nordafrica o in Albania. Sono come quelle di Atene e Londra, di Parigi e Roma.
Io non so se la questione principale sia quella della disoccupazione giovanile, benché dall’Iran all’Egitto, siano i giovani a stare in prima fila nelle rivolte. Ma da che mondo è mondo i giovani stanno sempre in prima fila nelle rivolte, pacifiche o armate che siano.
A me sembra piuttosto che la questione principale in comune, tra qui e lì, sia quella dei processi di privatizzazione dell’economia. Sottratta al paradigma che il primato sull’economia appartenesse alla politica, i processi di privatizzazione del mondo economico – e la finanziarizzazione ne è solo l’aspetto più eclatante – sono stati sottratti a qualsiasi intervento pubblico. Che la privatizzazione abbia gli aspetti odiosi del familismo amorale di Ben Ali o di quello da aggiotaggio della Enron o della Lehman Brothers, a me sembra non faccia poi una gran differenza.
Contro la privatizzazione dell’economia, della vita sociale, in occidente ci si prova a meglio regolamentare le cose, i mercati, la finanza, le regole degli scambi. In buona sostanza, ma con enormi resistenze, c’è un tentativo di ritorno dell’interesse pubblico nei confronti di quello che Tremonti – uno dei promotori di nuovi global standard – definisce il mercatismo.
Neanche tanto paradossalmente, Tremonti, sostanzia il suo progetto di regole con un richiamo religioso: Dio, Patria, Famiglia. Neanche tanto paradossalmente, perché nell’impossibilità di tornare a uno strumento comune vieto come lo Stato – l’orrore del socialismo –, l’unica ideologia comune che ci rimane è la religione. Quella cristiana.
La modernità post-finanziariarizzazione assume così i contorni di una regressione ideologica: piccole patrie, piccole famiglie, piccoli dei. La differenza con i regimi autoritari sta tutta nell’estensione della forza, non nei presupposti.
A me sembra che le rivolte nordafricane – ma anche quella albanese, la prima nel 1997 fu contro le società piramidali secondo lo schema Ponzi che si era diffuso vertiginosamente, proprio lo schema applicato dal cosmopolitissimo Madoff – siano universali proprio perché si muovono alla ricerca di un sentimento del comune. Che sia oltre il liberismo, che sia oltre lo statalismo. Che sia oltre la privatizzazione della vita, che sia oltre la statalizzazione della vita.
Certo, c’è un pericolo lì: che i professionisti del comune, i religiosi, gli islamici, riportino la politica nelle moschee.
Ma c’è un pericolo pure qui: che nello sfaldamento di ogni sentimento pubblico, nell’accaparramento di ogni risorsa collettiva, di ogni ricchezza collettiva, prevalga definitivamente la territorializzazione dei poteri.
Non vorrei, da qui a fra un po’, parafrasando Croce, dover spiegare perché non posso non dirmi islamico.

Nicotera, 1 febbraio 2011
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