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salva invia
23 Dicembre 2013
Due giustizialismi da abbattere
Quando guardi le immagini di un bambino che scalcia e strepita trascinato via da due poliziotti – è successo l’anno scorso a Cittadella, Padova –, come fosse Pinocchio preso dai fratelli Branca, che lo hanno stanato nella scuola – nella scuola! – in ottemperanza a un provvedimento del magistrato dei Minori per una causa di divorzio e affidamento, non è che hai bisogno del latinorum o di avere studiato il De officiis di Cicerone per capire che è una cosa storta. Summum ius, summa iniuria, «Diritto sfrenato, violenza assicurata», traduco io a orecchio. In realtà Cicerone parla di callida sed malitiosa iuris interpretatione, «sottile ma maliziosa interpretazione del diritto». Non è solo l’acritico richiamo alle leggi, la sciatteria giudiziaria, che mostra insipienza e incoscienza, c’è quel di più di capzioso, nell’esercizio di un potere potente, che fa accapponare la pelle.
Fu Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo del pool di Mani pulite di Milano, nel suo discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario 2002 [quello del “Resistere, resistere, resistere”] a rovesciare la frittata, accusando di malizia chi criticava gli eccessi del potere giudiziario, in particolare l’uso indecente dell’arresto e dei pentiti. Ricordiamolo: «Di altri fenomeni di questa sconcertata fase della nostra civiltà giuridica deve pur farsi menzione. Le accuse generiche di parzialità preconcette, formulate contro i giudici; l’analfabetismo storiografico che ha indotto qualcuno a lanciare come anatema contro i magistrati la parola “giustizialismo” [ecc ecc]». Della «fase della nostra civiltà giuridica» – siamo pur sempre la patria del diritto romano, di Filangieri, Verri, Beccaria – a Borrelli venne da sottolineare lo «sconcerto» provocato dall’abuso concettuale del termine “giustizialismo”. Come a dire, sciacquatevi la bocca prima di parlare. Certe volte penso che Borrelli sia stato una versione incivilita – è un fine melomane, si sa – del giudice Holden, il magnifico personaggio di Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, «enorme, bianco e glabro come un infante smisurato», che a metà Ottocento lungo il confine tra Stati Uniti e Messico trascina con sé una banda di reietti, assassini, cacciatori di scalpi che impongono “la legge” contro bande pellerossa e irredenti messicani. Ehi, sto parlando di letteratura, non prendetemi alla lettera.
Però, è vero, una qualche difficoltà a maneggiare il termine “giustizialismo” c’è. Piuttosto che centrare una definizione, provo a spaccarla in due: credo esista un “giustizialismo istituzionale” – ovvero, uno sfrenato e capzioso esercizio del potere giudiziario – e uno “sociale” – ovvero, un rancoroso sobbollire contro i potenti. Il primo, quello istituzionale, trova conforto nell’eccessiva legiferazione, nella “produzione di leggi a mezzo di leggi”, in una sorta di giuridificazione della società; il diritto dovrebbe essere così capillare da prevedere ogni atto illegale: sarebbe pure una società “buona”, dove i magistrati fungono da sacerdoti e arconti, forse pure una società morta. E violenta, istituzionalmente violenta. Sarebbe come la società di Minority Report, il film tratto dal bel romanzo di Philip K. Dick, coi precog che “pre-vedono” il crimine. Il secondo, quello sociale, è invece speculare: si alimenta della consapevolezza pagana che il male c’è, che vivere sul limite dell’illegalità è umano, solo che ti accorgi che c’è sempre qualcuno più pagano di te, più umano di te, che mette a frutto lo stato delle cose, mentre tu resti al palo. E ti viene invidia, rancore e gelosia: vuoi che sia “abbrusciato” presto sulla pubblica piazza. A volte, storicamente, giustizialismo istituzionale e sociale si sovrappongono, in una miscela mortale, a volte confliggono.
Ora, ditemi voi chi non vorrebbe avere la tempra morale di Socrate che, accusato in modo palesemente capzioso per un processo politico spacciato per giudiziario, condannato a morte seppur per risicata maggioranza da una giuria popolare – erano i cittadini, estratti a sorte, a giudicare nella democrazia di Atene, non “i magistrati” –, a Critone che aveva corrotto le guardie per farlo evadere dice che preferisce affrontare la cicuta piuttosto che infrangere la legge, perché «è meglio subire un’ingiustizia, che farla». Socrate muore di violenza istituzionale, di giustizialismo istituzionale. Affronta la morte con la consapevolezza che saranno i suoi giudici a coprirsi di vergogna per l’eternità. Socrate muore per la contingenza politica d’una lotta di potere che cerca stabilità nella città spaccata tra democratici e oligarchi, riaffermando la primazia della legge. Solo che – diciamoci la verità – non è che puoi sempre bere cicuta. Oppure andare sul rogo a testa alta come Giordano Bruno – «Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla». I muri delle celle di palazzo Steri a Palermo erano graffiati di versi e frasi e disegni di sventurati caduti nelle grinfie dell’Inquisizione, senza più ritorno.
Per mano del giustizialismo sociale muore invece Gesù, dato in pasto alla folla urlante in un processo imbastito su false accuse mentre Pilato fa spallucce – non c’è formale violazione del procedimento, cos’altro potrebbe fare? Il diritto si ritira, si apparta, e lascia il campo alla folla che vuole il sangue: Gesù va alla croce, con i ladroni. Sa di poter contare – eppure ne dubita per un momento, persino lui – su una giustizia più alta, divina, perdona e chiede al Padre di perdonare la folla che non sa quel che fa. L’etica di Socrate – la vita buona che si condensa di fronte alla morte, ingiusta, e mantiene la sua superiorità di coscienza – viene oltrepassata dalla morale cristiana, che va ben oltre la giustizia terrena, che sempre ingiusta è. Non c’è più spazio per la sanguigna carnalità del Vecchio Testamento, dove la vendetta è la misura umana della giustizia dell’occhio per occhio, non c’è più spazio per lo stoicismo greco della democrazia ateniese, la consapevolezza storica che le cose mutano a seconda della forza politica delle idee e degli schieramenti: il cristianesimo fa piazza pulita, che sia dato a Cesare l’amministrazione del mondo, tanto il suo senso e il suo destino ultimo sono nelle mani di Dio, là ci sarà il Giudizio universale. E Dio sarà giustizialista oppure?
Ora, mi rendo conto di non avere semplificato le cose, anzi. Però, è tempo di fare buoni proponimenti per l’anno nuovo e perciò facciamo assieme un piccolo sforzo ancora.
Perché gli imputati dei processi staliniani – uomini dalla grande tempra morale e intellettuale – si piegavano a capo chino di fronte all’inaudita violenza del giustizialismo istituzionale? Ricordate Koestler e il suo splendido Buio a mezzogiorno? Perché Robespierre non riesce neppure a pensare di fermare il Terrore e cade vittima del giustizialismo sociale e delle tricoteuse che sferruzzano sotto il patibolo, di quella rabbiosità sociale che pure aveva dato vita alla Rivoluzione giacobina assaltando la Bastiglia e liberando le vittime di una capricciosa giustizia istituzionale, ancorché regale? Perché le Guardie rosse irridono e violentano qualunque atteggiamento “borghese” in una follia di giustizialismo distruttivo “sul posto”, che sembra azzerare ogni buon senso, eppure sono l’anima stessa dello spirito rivoluzionario, la premessa di ogni cambiamento, e poi “la banda dei Quattro” viene sbertucciata e condannata platealmente e capziosamente, creando le condizioni per “stabilizzare” il potere? C’è da pensarci, no?
C’è una “grandezza storica” in tutto questo, e la lingua svelta aiuta poco. Però, vorrei chiudere con una proposizione: se dal giustizialismo sociale può salvarci il diritto e la legge, dal giustizialismo istituzionale può salvarci solo la rivolta. Insomma, la questione della cittadinanza è sì quella dell’habeas corpus, di essere rivestiti di diritti, di non essere una nuda vita; ma è anche quella di “resistere, resistere, resistere” al potere istituzionale di giustizia, alla sua illimitata violenza. È la stessa questione – la divisione dei poteri non la elimina, semmai la rende plurima – posta dalla Costituzione americana che, di fronte al pericolo che il governo, qualsiasi governo, accentrasse tanto potere da schiacciare la libertà dei cittadini, prescrisse il diritto all’insurrezione.
È già ora?

Nicotera, 19 dicembre 2013
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