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salva invia
08 Luglio 2004
Dal burqa al cappuccio
Quando gli americani, dopo l’11 settembre, decisero di bombardare l’Afghanistan, e analisti e commentatori si soffermavano sul quadro geopolitico e sul nuovo disegno di quell’area nevralgica, c’era consapevolezza di una motivazione «prima». Erano stati attaccati. Come se dei banditi fossero penetrati in casa, avessero razziato, stuprato. E benché uno possa spendere parole di ragione, di perdono e di diritto, senti stridere la voce nel dare addosso a chi non si rassegna all’imperscrutabile mistero divino o non si affida alle imperfette leggi civili. Niente resterà impunito. Sì, certo è la logica della frontiera, di John Wayne e di El Paso, dei ‘giustizieri della notte’, ma anche questa è l’America che conosciamo - a maggior ragione se è una America ‘immaginaria’.
Con il susseguirsi dei bombardamenti e dei combattimenti, le motivazioni slittarono progressivamente verso l’aspetto ‘virtuoso’ dell’intervento armato. Si combatteva contro una minaccia per il mondo, ma anche contro un nemico barbaro e feudale che andava letteralmente sradicato. La sua mancanza di umanità era evidenziata nel modo di considerare e trattare le donne, un ‘disprezzo’ elevato a sistema di governo e basato su una minuziosa pratica quotidiana. Come dire: chi tratta così le donne è capace di tutto. Simbolo di questo orrore e della ‘campagna di liberazione’ divenne il burqa. Il burqa era fotogenico. Cheers, clic. Il burqa divenne ‘immaginario popolare’.
Il doppio registro emotivo, la «flessibilità» motivazionale, è un carattere peculiare di questa guerra infinita: l’enfasi mediatica, prima e dopo, data alla liberazione della soldatessa Jessica ne è buon esempio sincretico: c’è un fiero aspetto patriottico [‘mai lasciare un compagno nelle mani del nemico’], ma c’è anche lo ‘specifico femminile’: la differenza tra l’emancipazione delle donne americane, incarnata nella giovane Jessica che sceglie il proprio destino, quand’anche pericoloso, e la brutalità dei nemici. Un valore aggiunto. Jessica forse non era la Demi Moore di Soldato Jane, quella che sottoposta per la sua formazione militare a maltrattamenti e torture esplicitamente sessuali urla al suo tenente: ‘capo istruttore, succhiami il cazzo’, però ci si poteva arrangiare.
La virtù brandita non si deve solo alla ‘furba’ volontà di un potere imperiale di nascondere al mondo i veri motivi della propria aggressività: il petrolio, il controllo di un’area. E’ che, come sempre, la guerra va «motivata». Anche i fanti vanno motivati: il logoramento quotidiano dei combattimenti, le condizioni del servizio, i ‘sacchi neri’ che aumentano, l’isolamento, la tensione e il pericolo, sfibrano qualsiasi esercito, anche quello più potente del mondo. Tanto più se anche l’esercito è governato secondo la logica del management: la prima regola di ogni azienda è la mission. E la missione è una regola ideologica - fare il prodotto migliore, essere il numero uno.
La guerra americana è dunque una guerra che si mostra virtuosa: il suo esercito di uomini e donne è fatto di soldati virtuosi. Questo è l’assunto. Anche nella tranche iraqena di questa guerra infinita l’elemento virtuoso è apparso in ritardo ma determinante: dal pericolo rappresentato dal regime di Saddam con le armi di distruzione di massa, si è slittati progressivamente alla ‘indecenza’ di quel sistema, tirannico, dittatoriale, genocida. E la guerra prosegue per un motivo virtuoso: lasciati a se stessi, gli iraqeni si ammazzerebbero come bestie rabbiose. Certo, sembra il refrain del ‘fardello bianco’, il white burden di Kipling: ma qui è il fardello di un sistema, non di una «razza», è il fardello della «democrazia», il democratic burden. La questione, per così dire, si è tutta spostata sui sistemi di governo societario, è politica. Gli iraqeni [and so on, tutta la «lista nera»] non hanno conosciuto Atene e Roma, Cromwell e Beniamino Franklin: questi popoli sono geneticamente dispotici. Esportare la democrazia è il democracy's burden. A mezzo dei suoi soldati virtuosi.
Buona parte di queste virtù decantate si infrange nelle carceri di Abu Ghraib. La flessibilità si inceppa nel lavoro «nero» dei guardiani. I soldati virtuosi appaiono viziosi.
I cappucci dei detenuti di Abu Ghraib indicano la «caduta» dalla virtù alla oscenità, da ciò che si voleva togliere a ciò che si è finiti per mettere, da ciò che si voleva scoprire a ciò che si doveva coprire: dal burqa al cappuccio. Dall’immaginario alle immagini reali, dal fotogenico all’inguardabile. Il «sistema americano» - nei rapporti sugli eventi le torture sono definite sistematiche - è osceno, dove esso, come nella prigione, è fuori dalla scena, nascosto agli occhi, e dove quindi maggiore dovrebbe essere la sua decenza. La messa in scena dei torturatori di Abu Ghraib coi corpi detenuti è la rappresentazione ‘popolare’, dal basso, di un sistema, di una regola produttiva, di una mission. Abu Ghraib è un Mc-orrore, è il jail horror picture show. Cheers, clic. Il sistema americano funziona - o dovrebbe funzionare - solo ex-post: i processi, le rimozioni, le corti marziali. Effetti collaterali. Come dire che è una democrazia involontaria. La guerra è preventiva, la democrazia è ex-post. Segue con le vettovaglie.
Questa democrazia è involontaria, occasionale, perché essa non riesce più a «comprendere» il rapporto fra la sua straordinaria potenza tecnologica e economica, la possibilità di benessere diffuso e la «rappresentazione del mondo». I soldati americani hanno tutti le loro camere digitali, si connettono a internet, scrivono i loro blog di guerra, mandano le foto di Abu Ghraib ai loro inmates d’oltreoceano, masterizzano e riproducono cd rom. La potenza, altrettanto involontaria, di questa dinamica è infinitamente superiore a qualunque prevenzione di giornalismo embedded. Così scoppia lo scandalo. Che etimologicamente è ‘impedimento’ e ‘mettersi in movimento’. La tecnologia odierna, quella diffusa, è scandalosa, lo scandalo è la tecnologia. Lo scandalo è il gap fra la tecnologia democratica, la diffusione di mezzi di rappresentazione del mondo, e il potere autoritario che la deforma e la rende oscena. Un impedimento. Una questione politica. E’ questo il punto di «non ritorno». Che non è prodotto d'importazione, ci tocca da vicino.

Roma, 28 maggio 2004

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