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salva invia
26 Novembre 2012
L'era glaciale europea
Dei tre cambi di camicie che il presidente del consiglio Ue, Herman Van Rompuy, aveva consigliato di portare con sé per affrontare una lunga notte al vertice di Bruxelles dei leader europei e la discussione sul bilancio pluriennale, alla fine non è servito neppure uno. L’incontro si è concluso con un nulla di fatto, bloccato da veti incrociati. Tutti a casa, e se ne riparlerà a inizio del 2013. Non una data precisa, forse gennaio, forse febbraio, chissà.
Ovviamente, tutti minimizzano – «Se non si dovesse trovare un accordo, non sarebbe una tragedia», era la frase ripetuta come un mantra da tutti gli addetti ai lavori nei giorni preparatori, vista l’arietta che tirava, e il giorno dopo si sono attenuti a questa linea – ma le cose non sono così semplici. I budget pluriennali, come quello 2014-2020 in questione, va approvato all’unanimità e se non viene adottato nell’insieme si deve approvare anno per anno a maggioranza. Il che significa moltiplicare per ogni anno richieste, opposizioni, contrarietà, con sta coperta corta tirata di qua e di là, in uno sfinimento di contrattazione fra leader e paesi e in un logoramento di immagine micidiali. È vero, successe pure nel 2005. Ma il 2005 sembra lontano come il secolo scorso, la crisi non era scoppiata e la recessione non aveva assunto queste dimensioni, quindi, una qualche quadra si dovrà trovare.
Per intanto, tutta la “tenuta” della comunità europea rimane sulle spalle del presidente della Banca centrale, Mario Draghi, che il giorno dopo ha incontrato i banchieri europei riuniti a Francoforte e li ha tempestivamente rassicurati dicendo sostanzialmente che lui c’è ed è pronto: «Siamo pronti ad applicare il programma». È pronto a rintuzzare ogni attacco speculativo con il suo scudo antispread [il cosiddetto OMT, Outright Monetary Transactions, ovvero l’acquisto di titoli da uno a tre anni sul mercato secondario dei titoli di Stato], e bisogna proseguire verso l’unione finanziaria e bancaria con una vigilanza unica e verso il meccanismo salva stati EFSF/ESM. Insomma, né più né meno delle cose che disse a inizio settembre, in pieno bailamme per la Grecia, quando riuscì a strappare il consenso della Merkel per il suo scudo. Che poi non è entrato mai in funzione, ma che ebbe un effetto di calmieramento. Anche perché da allora la situazione si è come congelata: se per un verso è vero che picchi clamorosi non si sono più avuti – per capirci, tipo lo spread prima dell’estate tra i nostri titoli e i Bund tedeschi che aveva toccato quota 500 –, per un altro sono rimasti a livelli insostenibili, nel nostro caso ancora ben sopra la soglia dei 300, mentre intanto il nostro debito pubblico continua a galoppare verso la soglia dei duemila miliardi: insomma, abbiamo meno difficoltà a rifinanziarci, a trovare investitori pagando qualche interesse in meno, ma il bilancio complessivo tende a precipitare perché cresce la necessità del finanziamento dato che la recessione avanza, ovvero la caduta del prodotto lordo, e quindi il prelievo fiscale diminuisce a vista d’occhio. Questo Grande Freddo attraversa ormai tutta l’Europa, in una spirale perversa: per dire, se l’Irlanda, che ottenne aiuti europei, si va lentamente risollevando, ecco che la Francia comincia a dare i numeri negativi; e stiamo tutti appesi al trimestrale dei dati tedeschi per capire se anche loro entrano in recessione o ce la fanno ancora a tirare la locomotiva europea.
Mario Draghi ha detto pure che non dovrebbe essere compito della Bce occuparsi della stabilità finanziaria, e non è solo una frase accattivante verso chi – i tedeschi della Bundesbank – lo accusa di essersi allargato un po’ troppo, di avere oltrepassato il mandato legato alla stabilità dei prezzi. È che stabilità finanziaria in un mondo in cui la finanziarizzazione ha assunto un ruolo preponderante significa leadership. E l’Europa in questo momento non sembra esprimere una forte leadership.
Al vertice di Bruxelles, David Cameron, il premier inglese, è arrivato a palle incatenate: in patria cresce l’insofferenza verso l’Europa e qualcuno, anche fra i Tories – fu un’idea dell’ultimo leader laburista di sinistra, Michael Foot, quella di battersi contro l’Europa e venne sconfitto e arrivò Tony Blair – si accarezza l’idea di indire un referendum. E poi, anche gli inglesi stanno dando di accetta coi tagli, e non possono “venderli” al proprio elettorato se poi in Europa approvano un aumento del bilancio – che era la prima proposta di Van Rompuy – o un suo leggero ritocco. Così Cameron ha fatto fuoco e fiamme e di fatto è stata lui la star del vertice. La Merkel, che gioca sempre di sponda e finisce col relegarsi in un ruolo di mediazione fra opposte trincee, alla fine ha puntato al rinvio, mettendosi in mezzo fra francesi, italiani, spagnoli, greci, portoghesi, lituani, lettoni, slovacchi, sloveni da una parte e olandesi, danesi, finlandesi, inglesi dall’altra, insomma fra poveri e ricchi. Tutti contro i tagli: i poveri perché erano eccessivi, i ricchi perché erano insufficienti. Una qualche quadra sarà difficile trovarla. E forse la strada per trovarla potrebbe essere, ancora una volta, quella di isolare la Gran Bretagna, che è già fuori dalla moneta unica, dagli accordi di Schengen, dal fondo salva stati, dal Trattato sulla sorveglianza dei bilanci, dalla supervisione bancaria europea. Però, difende a spada tratta le “concessioni” – un rimborso di circa 200 miliardi – che la Thatcher strappò all’epoca e che possono essere revocati solo all’unanimità. Tenere ancora la Gran Bretagna così debolmente vincolata all’Europa sarebbe anche per Cameron una via d’uscita. Solo che a ogni occasione l’opposizione inglese, per un motivo o l’altro, raccoglie intorno a sé gruppi di Stati, indebolendo tutta la costruzione europea.
L’Italia fa la parte del vaso di coccio: non va con il cappello in mano – ma d’altronde neanche Rajoy lo fa, e ne avrebbe più motivi – a chiedere denari, è vero, ma facciamo un po’ la parte dei fessi: siamo il quarto paese contributore netto – versiamo ciò all’Europa più di quanto ci venga reso – e il primo, il primo, in termini relativi al reddito procapite. Ci comportiamo da benestanti ma abbiamo le pezze al culo. Ci tolgono un bel po’ di miliardi per l’agricoltura, ma di meno di quanto avevano minacciato e ne usciamo sorridenti. È proprio una cosa da meridionali, anche se ora c’è l’algido professor Monti a rappresentarci e lui addebita queste discrepanze alle follie comportamentali di Berlusconi – che poi sarebbe un modo di dire per continuare a tirare su Tremonti.
Ci sarà ancora Monti quando si riaprirà la trattativa europea sul bilancio pluriennale? Davvero qualcuno può pensare che sia così determinante?
La frattura fra il club dei ricchi e i Piigs è ormai insanabile, la situazione della Grecia che rimane sull’orlo del baratro e non solo non vede luce in fondo al tunnel ma non vede proprio il tunnel si configura come paradigmatica, anche se lì, proprio per il suo peso minimo, tutte le contraddizioni invece di stemperarsi si sono aggrovigliate e deflagrate.
E, soprattutto, ci sarà ancora un’Europa quando Monti sarà pronto per andare a ridiscutere in nome dell’Italia? A questo punto, qualcuno può pensare che sia ancora determinante?

Nicotera, 26 novembre 2012
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